Giappone

Il bagliore che non svanisce by Filippo Venturi

Su FotoIT è uscito un mio articolo sulla fotografia giapponese in relazione al trauma nucleare di cui, quest’anno, cade l’80° anniversario. Si tratta del primo articolo in cui esploro il linguaggio fotografico in Giappone e che intendo continuare a raccontare in altri articoli che usciranno sulla rivista!

Di seguito un estratto dell’articolo.


Il bagliore che non svanisce

Fotografia e memoria del trauma nucleare in Giappone, 80 anni dopo.

In Europa, la Seconda guerra mondiale terminò l’8 maggio 1945 con la resa della Germania, ma nel Pacifico il conflitto proseguì in modo sanguinoso. Il Giappone, infatti, non contemplava la sconfitta e si preparava a una resistenza a oltranza contro gli attacchi degli americani.

Il 16 luglio 1945, con l’esito positivo del test Trinity, condotto nel deserto del New Mexico nell’ambito del Progetto Manhattan, gli Stati Uniti divennero i primi possessori dell’arma atomica funzionante. In breve tempo, questa nuova bomba fu considerata lo strumento con cui accelerare la conclusione del conflitto: avrebbe dovuto causare una tale distruzione da spezzare anche l’orgoglio giapponese e costringere il paese alla resa.

Il 6 agosto, alle ore 8.15, la bomba all’uranio Little Boy venne sganciata su Hiroshima (l’esplosione avvenne a un’altezza di circa 580 metri dal suolo) provocando la morte immediata di decine di migliaia di persone — il bilancio totale delle vittime, incluse quelle decedute successivamente per ustioni e radiazioni, è stimato in 140.000. Il 9 agosto, alle ore 11.02, la bomba al plutonio Fat Man colpì Nagasaki, causando complessivamente circa 70-80.000 morti.

Neppure dopo queste ecatombi i vertici militari giapponesi accettarono la sconfitta. Si rese quindi necessario l’intervento personale dell’imperatore Hirohito che — rompendo con la tradizione che lo voleva figura sacra e distante — si rivolse per la prima volta direttamente alla nazione, pronunciando il 15 agosto 1945 un discorso radiofonico per annunciare la cessazione delle ostilità e salvare il Giappone dalla completa distruzione. Il 2 settembre 1945, infine, venne firmato l’atto di resa a bordo della nave da guerra USS Missouri, nella baia di Tokyo.

Il trauma atomico del 1945 segnò profondamente l’identità culturale del Giappone e si riflesse con forza nella sua produzione artistica, dando origine a una lunga e dolorosa elaborazione collettiva. L’esperienza apocalittica di Hiroshima e Nagasaki, unita allo shock per la resa e la fine dell’imperialismo, generò un senso diffuso di lutto, vergogna e riflessione esistenziale, che si tradusse in una ricerca di nuove forme espressive capaci di affrontare l’irrappresentabile e di dare voce all’angoscia di un’intera nazione. […]


Butoh, a japanese dance by Filippo Venturi

Some photos from my reportage on butoh dance, which is part of the project “The nails that sticks out gets hammered down”.

Butoh dancer Kohei Wakaba during the costume-dressing for the performance titled “Those Who Ain’t Damn Nobody,” staged together with fellow butoh dancer Mana Kawamura.



Butoh dance was born in Japan in the late 1950s as a form of aesthetic and spiritual rebellion against the wounds of the postwar period, Western influence, and the pressures of a society built on order, conformity, and productivity.

Created by choreographer Tatsumi Hijikata and dancer Kazuo Ōno, it transforms the body into a instrument of protest and revelation.

Bodies painted white, slow or convulsive movements, grotesque and distorted gestures stage pain, metamorphosis, and the individual’s resistance.

Also called the “dance of darkness”, Butoh explores the unspeakable: atomic memory, social repression, and the deep tensions between harmony and suffering that run through the soul of contemporary Japan.

«The moon is invisible during the day and shines brightly at night. It takes night to make the moon shine. It takes ugliness to make the public reflect on beauty.»

«I believe that the role of Butoh is to resist defeat, on the ash-covered ground, next to the fragments of intercontinental ballistic missiles, without shouting against war or calling for peace, but simply standing silently, painted white, amid the ashes.»

— Kohei Wakaba

Basi militari statunitensi a Okinawa by Filippo Venturi

[English below]

Girando per Tokyo, appena fuori dalla stazione della metro di Meiji-jingumae “Harajuku” — un punto strategico, ben visibile e molto frequentato, in particolare dai giovani — ho assistito a una protesta pacifica contro la presenza militare statunitense a Okinawa. La protesta continuava anche dall'altro lato della strada, in un'ampia aea pedonale, coinvolgendo numerose persone.

Avevo letto qualcosa in passato, ma non avevo mai approfondito la gravità di questo fenomeno.

Dal 1972 a oggi, migliaia di crimini sono stati denunciati contro militari statunitensi in Giappone, tra cui oltre 120 casi di stupro a Okinawa.

Il 60% dei reati commessi da personale militare statunitense in Giappone avviene proprio a Okinawa, nonostante quest'isola rappresenti meno dell’1% del territorio nazionale.

Questo squilibrio è dovuto all’alta concentrazione di basi USA: oltre il 70% delle installazioni militari americane in Giappone si trova lì.

La recente condanna di un militare statunitense a 7 anni di carcere per aver aggredito sessualmente una donna giapponese ha riacceso il dibattito sul SOFA (Status Of Forces Agreement), il trattato che regola la presenza delle truppe USA in Giappone e che consente ai militari di essere giudicati secondo norme speciali, spesso protetti da arresto immediato o processi locali, che per molti giapponesi è simbolo di ingiustizia e di impunità, soprattutto a Okinawa.


Walking around Tokyo, just outside the Meiji-jingumae “Harajuku” subway station — a strategic, highly visible, and highly frequented spot, particularly by young people — I witnessed a peaceful protest against the U.S. military presence in Okinawa. The protest also continued across the street in a wide pedestrian aea, involving numerous people.

I had read about it in the past, but had never delved into the seriousness of this phenomenon.

From 1972 to the present, thousands of crimes have been reported against U.S. military personnel in Japan, including more than 120 cases of rape in Okinawa.

60% of crimes committed by U.S. military personnel in Japan occur on Okinawa itself, despite the fact that this island represents less than 1% percent of the national territory.

This imbalance is due to the high concentration of U.S. bases: more than 70% of U.S. military installations in Japan are located there.

The recent sentencing of a U.S. serviceman to 7 years in prison for sexually assaulting a Japanese woman has reignited the debate over the SOFA (Status Of Forces Agreement), the treaty that regulates the presence of U.S. troops in Japan and allows servicemen to be tried under special rules, often protected from immediate arrest or local trials, which for many Japanese is a symbol of injustice and impunity, especially in Okinawa.

Another rainy day in Shibuya by Filippo Venturi

Un altro giorno di pioggia a Shibuya.
Raramente faccio fotografia di strada, ma a Tokyo non si può resistere!

Lost in Translation, nel 2024 by Filippo Venturi

A distanza di anni, ho rivisto Lost in Translation di Sofia Coppola. Ricordavo fosse un buon film, ma questa volta me ne sono innamorato ancora di più.

È uno di quei film in cui sembra accadere poco, ma in realtà accade moltissimo. Due persone diverse, con due solitudini diverse – accentuate anche dalla differenza d’età – si incontrano e condividono un breve, intenso capitolo delle loro vite. Forse è proprio la consapevolezza che si tratti di qualcosa di profondo ma fugace, a renderlo così speciale. Forzare una storia del genere per trasformarla in qualcosa di ordinario non funzionerebbe.

Non è una di quelle avventure giovanili estive, leggere e spensierate, di cui a malapena ricordiamo i dettagli. È un contatto più maturo, quasi una pausa da una realtà troppo ingombrante, una parentesi in una dimensione parallela.

La magia di questa storia prende vita grazie a una sceneggiatura straordinaria (giustamente premiata con l’Oscar) e a una regia elegante, capace di creare atmosfere e suggestioni musicali difficili da ritrovare altrove (qualcosa di simile c'era anche nel suo film Somewhere).

Scarlett Johansson è meravigliosa, ma la mia adorazione va a Bill Murray: quando vidi il film per la prima volta, non lo avrei mai immaginato adatto per un ruolo di questo tipo (per me era ancora quello di Ghostbusters e Ricomincio da capo), e invece qui è perfetto. La sua ironia resta intatta, ma si arricchisce di profondità e fascino.

Il finale, pur ricordandomelo bene, funziona perfettamente. Se la prima volta avevo sentito la necessità di leggere online teorie su cosa si bisbigliassero all’orecchio, ora lo accetto per quello che è: un momento che non ha bisogno di essere spiegato.

Se non lo avete mai visto (o se, come nel mio caso, è passato troppo tempo), vi consiglio di recuperarlo!