Cinema

Warfare di Alex Garland by Filippo Venturi

Nei giorni scorsi ho visto Warfare, scritto e diretto da Alex Garland.

“Vuoi vivere 90 minuti di guerra iper-realistica attraverso gli occhi dei Navy Seals in Iraq?” era lo spunto iniziale intrigante. E in effetti il film mantiene la promessa. Per gran parte della durata assistiamo alla ripetitività e alla noia di una missione di ricognizione, fatta di ore passate ad annotare i movimenti del nemico, nascosti in una casa sottratta a due famiglie irachene. Poi, all’improvviso, subiscono un attacco: colpi di fucili e di mitra, il fragore assordante dei colpi, il panico. L’addestramento e la spavalderia dei giovani soldati svaniscono in un attimo, lasciando spazio a perdita di lucidità, traumi e alle urla interminabili dei feriti.

Dal punto di vista del realismo, il film funziona. Non ci sono eroi alla Rambo, solo una missione fallita e una ritirata amara. Ed era esattamente ciò che cercavo.

Ma qui finiscono i meriti. Manca qualsiasi approfondimento del contesto generale e soprattutto una riflessione politica. Finché si vuole proporre un’esperienza sensoriale “dal di dentro”, lo spettatore può accettarlo. Ma quando, dopo la fuga dei soldati, vediamo le famiglie irachene sequestrate all'inizio del film, aggirarsi con sgomento nella loro casa devastata — mura crivellate, sangue sul pavimento, segni tangibili di violenza — sembra arrivato finalmente il momento di dire qualcosa di significativo sulla guerra. Ma non succede.

Negli ultimi minuti vengono mostrati e celebrati i veri soldati di cui abbiamo visto la storia, coinvolti nella produzione, che arrivano sul set, stringendo mani e sorridendo con Garland e Ray Mendoza (sulle cui testimonianze è basato il film). Un epilogo che svuota di senso la sequenza precedente e lascia una sgradevole sensazione di aver visto un film di propaganda (e che la mancanza di approfondimento e contesto sia per convenienza, più che per altro).

Esaurita la curiosità di vedere in modo realistico la quotidianità dei Navy Seals in missione, non è un film che rivedrei.

E, a questo punto, mi viene da pensare che Alex Garland sia un autore sopravvalutato. Già in Civil War partiva da un’idea forte — “E se scoppiasse una guerra civile negli Stati Uniti?” — ma anche lì mancava il coraggio di approfondire davvero, preferendo soluzioni narrative banali e una rappresentazione superficiale del lavoro di fotografi e giornalisti.

Lost in Translation, nel 2024 by Filippo Venturi

A distanza di anni, ho rivisto Lost in Translation di Sofia Coppola. Ricordavo fosse un buon film, ma questa volta me ne sono innamorato ancora di più.

È uno di quei film in cui sembra accadere poco, ma in realtà accade moltissimo. Due persone diverse, con due solitudini diverse – accentuate anche dalla differenza d’età – si incontrano e condividono un breve, intenso capitolo delle loro vite. Forse è proprio la consapevolezza che si tratti di qualcosa di profondo ma fugace, a renderlo così speciale. Forzare una storia del genere per trasformarla in qualcosa di ordinario non funzionerebbe.

Non è una di quelle avventure giovanili estive, leggere e spensierate, di cui a malapena ricordiamo i dettagli. È un contatto più maturo, quasi una pausa da una realtà troppo ingombrante, una parentesi in una dimensione parallela.

La magia di questa storia prende vita grazie a una sceneggiatura straordinaria (giustamente premiata con l’Oscar) e a una regia elegante, capace di creare atmosfere e suggestioni musicali difficili da ritrovare altrove (qualcosa di simile c'era anche nel suo film Somewhere).

Scarlett Johansson è meravigliosa, ma la mia adorazione va a Bill Murray: quando vidi il film per la prima volta, non lo avrei mai immaginato adatto per un ruolo di questo tipo (per me era ancora quello di Ghostbusters e Ricomincio da capo), e invece qui è perfetto. La sua ironia resta intatta, ma si arricchisce di profondità e fascino.

Il finale, pur ricordandomelo bene, funziona perfettamente. Se la prima volta avevo sentito la necessità di leggere online teorie su cosa si bisbigliassero all’orecchio, ora lo accetto per quello che è: un momento che non ha bisogno di essere spiegato.

Se non lo avete mai visto (o se, come nel mio caso, è passato troppo tempo), vi consiglio di recuperarlo!

Gli spiriti dell’isola (The Banshees of Inisherin) by Filippo Venturi

Ho finalmente visto "Gli spiriti dell’isola" (The Banshees of Inisherin), un film di Martin McDonagh e, come sospettavo, devo riconoscere che è davvero notevole, come i precedenti del regista (In Bruges e Tre manifesti a Ebbing, Missouri).

Il film ha l'atmosfera di una pièce teatrale, con una narrazione intima che si svolge in pochi luoghi che si ripetono, incorniciati dagli splendidi paesaggi irlandesi, e con una grande cura della fotografia. Questo paese, che adoro e in cui sono stato diverse volte, fa da sfondo a una duratura amicizia fra due uomini che improvvisamente viene interrotta da uno dei due. Nel frattempo, di là dal mare, sulla terra ferma, risuonano i bombardamenti (siamo nel 1923).

Le dinamiche con cui questa amicizia si interrompe e si trasfoma in altro, possono sembrare una semplice metafora della guerra civile in corso ma, scavando più a fondo, accorgendosi anche di personaggi che sembrano secondari, emergono diverse stratificazioni narrative e figure enigmatiche che arricchiscono la trama, conferendole una certa complessità e interesse nell'interpretarne i significati, anche collegandosi a miti e leggende dell'Irlanda.

Colin Farrell, che di solito non mi è particolarmente simpatico, qui è magnifico, persino meglio di Brendan Gleeson, un attore che adoro.

Se dovessi trovare un difetto, direi che l'inizio potrebbe sembrare un po' ripetitivo, ma con un cast di questo calibro e una cura così meticolosa di ogni aspetto, è un dettaglio che si dimentica presto. Una volta che il film ingrana, è impossibile non lasciarsi coinvolgere e trasportare.

Nella rete by Filippo Venturi

Guidavo per le campagne coreane quando ho notato un pescatore intento a catturare pesci con una rete. Ho parcheggiato l'auto, siamo scesi e gli siamo andati incontro. Non parlavamo la stessa lingua ma vedendo la mia fotocamera ha capito che ero intenzionato a ritrarlo proprio lì, in mezzo al fiume. Cosa che mi ha concesso. Subito dopo, come colpito da una illuminazione, col movimento delle mani ci ha invitati in casa sua dove ci ha presentati una donna e un altro uomo. Nessuno capiva nessuno, ma si sono fatti ritrarre dentro e fuori casa mentre, intanto, allestivano una tavola per offrirci la cena.

Questo incontro mi ha vagamente ricordato il racconto Viewfinder, di uno dei miei scrittori preferiti. Rivedendo le fotografie, c'è qualcosa di più, un sapore cinematografico che permea i loro volti. In particolare, il ritratto davanti alla casa mi fa pensare a una locandina di un film, i cui personaggi sembrano adorabili.

Il Cacciatore di Michael Cimino, 45 anni dopo by Filippo Venturi

Vedere "Il Cacciatore" (1978, di Michael Cimino) in sala è, ovviamente, una esperienza molto diversa dal vederlo in televisione. Più potente e avvolgente. Tre ore di religioso silenzio davanti a un capolavoro del cinema.

Per errore sono arrivato alle 20.30, convinto che fosse l'orario di inizio e, vedendo la sala deserta, avevo pensato a che occasione persa fosse... Invece alle 21 la sala era mezza piena, con persone di tutte le età

Erano almeno 10 anni che non lo vedevo e, questa volta, penso di aver apprezzato maggiormente diversi aspetti, partendo dalla fotografia (nonostante il restauro in 4K non mi abbia impressionato particolarmente, evidentemente il materiale di partenza era in pessime condizioni), alla scenografia, alla comprensione di certe dinamiche adulte che oggi comprendo meglio, arrivando anche all'immedesimarmi coi personaggi e nel sentire, effettivamente, quanto fosse rassicurante la presenza di Mike (forse il mio De Niro preferito).