Books

Raymond Carver, Viewfinder by Filippo Venturi

Mirino

Un uomo senza mani bussa alla mia porta per vendermi una foto della mia casa. A parte gli uncini cromati, è un uomo sulla cinquantina dall’aspetto ordinario.
“Come ha perso le mani?” chiedo, dopo aver saputo cosa voleva.
“Quella è un’altra storia” dice lui “La vuole questa foto o no?”.
“Venga dentro” dico io “Ho appena fatto il caffè.”
Ho appena fatto anche della gelatina alla frutta. Ma non glielo dico.
“Approfitto della toilette, se posso.” Dice l’uomo senza mani.
Voglio vedere come riesce a tenere una tazza. Già so come fa con la macchina fotografica. È una vecchia Polaroid, grande e nera. La tiene legata a delle cinghie di pelle che gli passano oltre le spalle e si incrociano sulla schiena, così che la fotocamera sia assicurata sul petto. Si piazza sul marciapiede di fronte alla vostra casa, centra la casa nel mirino, preme il bottone con uno degli uncini, ed ecco che salta fuori la fotografia.
L’ho osservato dalla finestra, capite?
“Dove ha detto che si trova il bagno?”
“Giù di là, a destra.”
Piegandosi, ingobbendosi tutto, riesce a liberarsi dalle cinghie. Mette la fotocamera sul divano e si rassetta la giacca.
“Può dare un’occhiata a questa nel frattempo.”
Prendo la fotografia che mi porge. Si vede un rettangolino di prato, il vialetto, il garage, le scalette d’ingresso, la finestra panoramica e la finestra della cucina, dalla quale l’ho osservato.
Mi chiedo perché dovrei volere un’istantanea di questa tragedia.
Guardo un po’ più da vicino e vedo la mia testa, la mia testa, dentro la finestra della cucina.
Vedermi lì, così, mi ha fatto riflettere. Ve lo assicuro, sono cose che fanno riflettere.
Sento il rumore dello sciacquone. Arriva nel salotto, sorridendo e chiudendosi la lampo, un uncino che tiene la cintura, l’altro che piega la camicia.
“Cosa ne pensa allora?” dice “Non male, no? Secondo me è venuta bene. Sono bravo, eh? Ammettiamolo, ci vuole un professionista.”
Si sistema il cavallo dei pantaloni.
“Ecco il suo caffè.” Dico.
Lui dice: “Lei vive da solo, giusto?”.
Osserva il soggiorno. Scuote la testa.
“È dura, è dura.” Dice.
Si siede accanto alla fotocamera, appoggia la schiena con un sospiro e sorride, come se sapesse qualcosa che non mi avrebbe rivelato.
“Beva il caffè” dico io.
 Sto cercando qualcosa da dire.
“Tre ragazzini sono passati da qui, volevano dipingere il mio indirizzo sul marciapiede. Chiedevano un dollaro per farlo. Non è che lei ne sa qualcosa?”.
L’ho sparata un po’ a caso, ma lo osservo bene lo stesso.
Si china in avanti, serio in volto, la tazza in equilibrio tra gli uncini. La appoggia sul tavolino.
“Lavoro da solo” dice “sempre fatto, sempre lo farò. Cosa sta cercando di dire?” dice.
“Pensavo ci fosse un collegamento.” Dico io.
Ho mal di testa. So che il caffè non aiuta, ma la gelatina di frutta a volte sì. Riprendo in mano la fotografia.
“Ero in cucina” dico “di solito sto sul retro.”
“Succede sempre,” dice lui “quindi hanno preso e l’hanno lasciata, giusto? Ora guardi me, io lavoro solo. Allora cosa ne dice? La vuole la fotografia?”
“Si, la compro” dico.
Mi alzo e raccolgo le tazze.
“Certo che la compra.” Dice lui “Io, per esempio, ho una stanza in centro. Niente di che. Salgo su un autobus, faccio il giro della periferia, e quando ho finito il lavoro mi sposto in un’altra città. Capisce cosa le sto dicendo? Una volta avevo dei figli. Proprio come lei.”
Aspetto con le tazze in mano e lo guardo lottare per alzarsi dal divano.
Dice: “Loro mi hanno ridotto così.”
Osservo con attenzione quegli uncini.
“Grazie per il caffè e per il bagno. Io la capisco, sa.”
Solleva e abbassa i suoi uncini.
“Me lo dimostri” dico io “Mi dimostri quanto. Faccia altre foto, a me e alla casa.”
“Non funzionerà,” dice l’uomo “Loro non torneranno.”
L’ho aiutato lo stesso con le cinghie.
“Posso farle un’offerta speciale,” dice lui “Tre per un dollaro. Se le faccio di meno ci rimetto.”
Usciamo fuori. Lui mette a punto l’otturatore. Mi dice dove sistemarmi e iniziamo il lavoro.
Ci muoviamo intorno alla casa. Meticolosamente. A volte mi metto di profilo, altre volte guardo dritto l’obiettivo.
“Bene,” dice lui “Così va bene,” dice, fino a quando non terminiamo il giro della casa e siamo di nuovo davanti all’ingresso. “Ne ho fatte venti. Sono abbastanza.”
“No,” dico io “Sul tetto” dico.
“Gesù,” dice lui. Dà un’occhiata su e giù per la strada. “Come no,” dice “ora fa sul serio!”
Dico: “Baracca e burattini, tutto. Se ne sono andati con tutto.”
“Guardi questi!” dice l’uomo, sollevando di nuovo gli uncini.
Vado dentro e prendo una sedia. La sistemo vicino al garage. Ma non è alta abbastanza. Allora prendo una cassa e la metto sulla sedia.
Si sta bene in cima al tetto.
Mi alzo in piedi e mi guardo intorno. Saluto e l’uomo senza mani mi fa un cenno con gli uncini.
Poi vedo dei sassi. C’è come un piccolo nido di sassi tutt’attorno al camino. Sapete i bambini, si divertono a tirarli lassù pensando di centrare il camino.
“Pronto?” faccio io e prendo un sasso e aspetto fino a quando non mi vede nel mirino.
“Pronto!” risponde lui.
Porto il mio braccio all’indietro e urlo: “Ora!” Tiro quel figlio di puttana più lontano che posso.
“Non so,” lo sento gridare “Non faccio mai foto in movimento.”
“Ancora!” urlo io e prendo un altro sasso.


Viewfinder

A man without hands came to the door to sell me a photograph of my house. Except for the chrome hooks, he was an ordinary­looking man of fifty or so.
“How did you lose your hands?” I asked after he’d said what he wanted.
“That’s another story,” he said. “You want this picture or not?”
“Come in, “I said. “I just made coffee.”
I’d just made some Jell­y, too. But I didn’t tell the man I did. “I might use your toilet,” the man with no hands said.
I wanted to see how he would hold a cup.
I knew how he held the camera. It was an old Polaroid, big and black. He had it fastened to leather straps that looped over his shoulders and went around his back, and it was this that secured the camera to his chest. He would stand on the sidewalk in front of your house, locate your house in the viewfinder, push down the lever with one of his hooks, and out would pop your picture.
I’d been watching from the window, you see.
“Where did you say the toilet was?”
“Down there, turn right.”
Bending, hunching, he let himself out of the straps. He put the camera on the sofa and straightened his jacket.
“You can look at this while I’m gone.”
I took the picture from him.
There was a little rectangle of lawn, the driveway, the carport, front steps, bay window, and the window I’d been watching from in the kitchen.
So why would I want a photograph of this tragedy?
I looked a little closer and saw my head, my head, in there inside the kitchen window.
It made me think, seeing myself like that. I can tell you, it makes a man think.
I heard the toilet flush. He came down the hall, zipping and smiling, one hook holding his belt, the other tucking in his shirt.
“What do you think?” he said. “All right? Personally, I think it turned out fine. Don’t I know what I’m doing? Let’s face it, it takes a professional.”
He plucked at his crotch. ”
Here’s coffee, “I said.
He said, “You’re alone, right?”
He looked at the living room. He shook his head.
“Hard, hard,” he said.
He sat next to the camera, leaned back with a sigh, and smiled as if he knew something he wasn’t going to tell me.
“Drink your coffee,” I said.
I was trying to think of something to say.
“Three kids were by here wanting to paint my address on the curb. They wanted a dollar to do it. You wouldn’t know anything about that, would you?”
It was a long shot. But I watched him just the same.
He leaned forward importantly, the cup balanced between his hooks. He set it down on the table.
“I work alone,” he said. “Always have, always will. What are you saying?” he said.
“I was trying to make a connection,” I said.
I had a headache. I know coffee’s no good for it, but sometimes Jell­y helps. I picked up the picture.
“I was in the kitchen,” I said. “Usually I’m in the back.”
“Happens all the time,” he said. “So they just up and left you, right? Now you take me, I work alone. So what do you say? You want the picture?”
“I’ll take it,” I said.
I stood up and picked up the cups.
“Sure you will,” he said. “Me, I keep a room downtown. It’s okay. I take a bus out, and after I’ve worked the neighborhoods, I go to another downtown. You see what I’m saying? Hey, I had kids once. Just like you,” he said.
I waited with the cups and watched him struggle up from the sofa.
He said, “They’re what gave me this.”
I took a good look at those hooks.
“Thanks for the coffee and the use of the toilet. I sympathize.” He raised and lowered his hooks.
“Show me,” I said. “Show me how much. Take more pictures of me and my house.”
“It won’t work,” the man said.
“They’re not coming back.” But I helped him get into his straps.
“I can give you a rate,” he said. “Three for a dollar.” He said, “If I go any lower, I don’t come out.”
We went outside. He adjusted the shutter. He told me where to stand, and we got down to it.
We moved around the house.
Systematic. Sometimes I’d look sideways. Sometimes I’d look straight ahead.
“Good,” he’d say. “That’s good,” he’d say, until we’d circled the house and were back in the front again. “That’s twenty. That’s enough.”
“No,” I said. “On the roof,” I said.
“Jesus,” he said. He checked up and down the block. “Sure,” he said. “Now you’re talking.”
I said, “The whole kit and caboodle. They cleared right out.”
“Look at this!” the man said, and again he held up his hooks.
I went inside and got a chair. I put it up under the carport. But it didn’t reach. So I got a crate and put the crate on top of the chair.
It was okay up there on the roof.
I stood up and looked around. I waved, and the man with no hands waved back with his hooks.
It was then I saw them, the rocks. It was like a little rock nest on the screen over the chimney hole. You know kids. You know how they lob them up, thinking to sink one down your chimney.
“Ready?” I called, and I got a rock, and I waited until he had me in his viewfinder.
“Okay!” he called.
I laid back my arm and I hollered, “Now!” I threw that son of a bitch as far as I could throw it.
“I don’t know,” I heard him shout. “I don’t do motion shots.”
“Again!” I screamed, and took up another rock.

Intervista con Emuse sul Laboratorio My Dear by Filippo Venturi

E’ uscito sul sito della Casa Editrice emuse, una intervista nella quale parlo dell’ultimo libro fatto insieme, “My Dear”, che contiene il risultato del Laboratorio fotografico omonimo che ho condotto, in collaborazione con l’associazione Between, nell’ambito del progetto europeo Shaping Fair Cities. Questo laboratorio ha visto protagoniste 20 donne di 9 nazionalità diverse!

L’articolo originale è disponibile qui: emuse incontra Filippo Venturi nella veste di insegnante e divulgatore di progetti fotografici

IL LIBRO

Fotografie di: Barbara Kulik, Graziella Paganelli, Ilaria Liu, Ilaria Zozzi, Khadija M'Goun, Kinga Paprota, Livia Cartas, Lorenza Fabbio, Mariama Dieng, Marina Bellavista, Nadiia Kovalchuk, Salomè Emperatriz San Martin, Svetlana Mocanu, Yujuan Chen.

Testi di:
Luciana Garbuglia (presidente dell’Unione Rubicone e Mare), Valeria Gentili (presidente dell’Associazione di promozione sociale Between), Elena Dolcini (Curatrice e Critica d’arte), Filippo Venturi (Fotografo e Docente del laboratorio)

Casa editrice Emuse, ISBN: 978-88-32007-42-8
Direttore editoriale: Grazia Dell’Oro
Coordinamento editoriale: Filippo Venturi
Progetto grafico: Denis Pitter

Il laboratorio “My Dear”, inserito all’interno del Progetto europeo Shaping Fair Cities, è stato rivolto a venti donne che vivono in Romagna (a Savignano sul Rubicone, Cesenatico, Sant'Angelo di Gatteo, San Mauro Pascoli e Gatteo) e coinvolte dall’Associazione Between. Le protagoniste sono di nove nazionalità diverse (italiana, rumena, polacca, bulgara, ucraina, cinese, peruviana, senegalese e marocchina), hanno un range di età che va da 22 a 65 anni e lavorano in diversi ambiti: assistenti familiari, impiegate, operaie, mediatrici culturali, bariste, ecc.

La finalità del laboratorio era il perseguimento dell’Obiettivo 5 dell’Agenda ONU 2030: “raggiungere l'uguaglianza di genere ed emancipare tutte le donne e le ragazze”.

Alle donne coinvolte nella realizzazione di un proprio progetto fotografico, sono state assegnate delle macchine fotografiche usa e getta con rullini da 27 scatti (con alcune eccezioni dettate da scelte tematiche o visive che hanno richiesto l'uso di altri mezzi). Questa scelta è stata dettata dal desiderio di fornire uno strumento di lavoro dedicato, che non fosse fonte di distrazione (come può essere uno smartphone) e col quale fosse necessario fermarsi a riflettere prima di fotografare, avendo un numero predefinito di tentativi. Avere delle limitazioni (di spostamento a causa della pandemia, di numero di scatti realizzabili, ecc.) spinge le persone a prendere coscienza della situazione e a ingegnarsi per trovare una via per esprimersi.

Il laboratorio è stato avviato nell’autunno 2020 ed è durato circa sei mesi. L’ideazione e la progettazione risalivano a dodici mesi prima, quando ancora le nostre vite non erano state stravolte dal Covid-19. La pandemia ha trasformato questo percorso rendendolo tortuoso e mettendone a rischio il raggiungimento del traguardo ma, presto, ha reso più coeso il gruppo, consentendogli di attraversare la tempesta e uscirne rafforzato.

La condivisione delle difficoltà nel periodo di emergenza sanitaria, gli stratagemmi digitali per mantenere il contatto anche quando il lockdown impediva di incontrarsi, il desiderio di raccontare con la fotografia le proprie vite, ha portato a un risultato profondo e interessante. Come spesso accade, le esperienze più segnanti sono quelle che si portano a termine fra imprevisti e difficoltà.

I progetti realizzati si sono focalizzati su storie personali, confidenze, ma anche sui rapporti sociali che abbiamo dovuto rivedere a causa del distanziamento sociale e dei dispositivi per prevenire il contagio. Da questo percorso è scaturito un universo di testimonianze costellato da sensibilità distinte, provenienze diverse, approcci disparati, ma tutte convergenti nel bisogno di ricevere e offrire, oggi più che mai, ascolto, comprensione e vicinanza.

Lo strumento fotografico per un lungo periodo è stato riservato a pochi professionisti. Da diverso tempo però si è assistito a un rapido processo di “democratizzazione” della fotografia. Chiunque può scattare una fotografia, anche senza strumentazione specifica, e può avere un ruolo da protagonista nel flusso comunicativo. Non solo, con le fotografie si può contribuire ad attivare processi sociali e influenzare la percezione pubblica.

L’INTERVISTA

Filippo Venturi ha recentemente organizzato un laboratorio fotografico in collaborazione con l’associazione Between nell’ambito del progetto europeo Shaping Fair Cities. Il laboratorio ha coinvolto venti donne di diverse nazionalità residenti in Romagna e dai loro lavori è nato un libro edito da emuse: My Dear.

Grazia Dell’Oro l’ha intervistato.

Filippo, durante questo ultimo anno, nonostante la situazione pandemica, sei stato molto attivo. Hai prodotto lavori che sono stati pubblicati su importanti riviste. In che modo questa nuova situazione che stiamo vivendo ti ha stimolato?
Inizialmente la pandemia ha rappresentato un blocco: oltre a dover rinunciare ad un grosso progetto in Cina, molti eventi che avrei dovuto documentare solo saltati. Per fortuna, pochi giorni dopo l’inizio del primo lockdown in Italia, qualcosa è scattato dentro di me e ho iniziato a documentare la pandemia sotto tutti i punti di vista che ritenevo interessanti. Solitamente non lavoro sulla stretta attualità, ma in questo caso mi sono trovato proprio al centro dell’attualità (l’Italia è stato il primo paese occidentale a subire i primi gravi effetti del Covid-19). Il primissimo lavoro che ho svolto è stato ritrarre e intervistare 40 rider sul cancello di casa mia; un’idea semplice ma efficace per adattarmi ai limiti imposti dal lockdown e che ha colpito molto i photoeditor di The Guardian che gli hanno dato ampio spazio. Poi, spinto dai primi buoni risultati, ho continuato la mia documentazione anche all’esterno, nel mio quartiere, in ospedale, nelle case dei malati, nel settore teatrale, ecc. e sono arrivate pubblicazioni su The Washington Post, Marie Claire, La Repubblica, Il Sole 24 Ore, ecc. È stata una esperienza molto formativa e positiva. Sono soddisfatto della reazione che ho avuto: tentare di rimanere lucido e attivo. Penso che ciò mi abbia permesso anche di non subire troppo gli effetti psicologici negativi di questo evento epocale.

My Dear è stato pensato come laboratorio di fotografia partecipativa. Come è nato e quale è stato l’intento del lavoro che hai condotto con le donne che hanno aderito?
Da alcuni anni mi è capitato di essere coinvolto, da parte di alcune Associazioni con cui avevo già collaborato, in alcuni progetti finanziati dall’Unione Europea o da altri Enti statali. È un settore che, se sfruttato a dovere (non a caso ci sono professionisti che si specializzano nel cercare questi bandi e nel preparare i progetti), consente di accedere a risorse importanti per sviluppare percorsi molto utili a livello sociale e anche artistico. Il laboratorio My Dear nasce all’interno del Progetto europeo Shaping Fair Cities ed ha come finalità perseguire l’obiettivo 5 dell’Agenda ONU 2030, cioè “raggiungere l’uguaglianza di genere ed emancipare tutte le donne e le ragazze”.

Credo che si possa dire che gli esiti del laboratorio sono stati superiori alle aspettative, per qualità e coerenza dei lavori fotografici. Quando ti sei reso conto che, in qualche modo, l’idea aveva attecchito?
In una prima fase mi ha colpito notevolmente la partecipazione delle venti donne che si sono interessate al laboratorio. Con la pandemia che colpiva ripetutamente il paese e rendeva impossibile condurre una vita sociale normale, mi ero rassegnato a veder ridursi il numero delle partecipanti, invece c’è stato uno spirito di adattamento notevole: se non potevamo incontrarci di persona, organizzavamo delle webcall, se non tutte riuscivano ad essere presenti, organizzavamo delle sessioni dedicate in qualunque giorno della settimana e orario. Se nemmeno quello era possibile, usavamo Whatsapp per comunicare, vedere il materiale prodotto e confrontarci. A livello umano è stata una esperienza incredibile e questo desiderio comune di portare a termine il percorso iniziato insieme avrebbe rappresentato già un grande traguardo. Poi, vedendo il frutto dei loro progetti, pur non essendo fotografe esperte, mi rendo conto che il risultato è andato oltre ogni aspettativa!

Come intendi sviluppare le esperienze che stai raccogliendo come insegnante o animatore di gruppi che hanno come obiettivo l’indagine sul tema dell’identità attraverso il mezzo fotografico?
Fino a qualche anno fa non mi vedevo a tenere corsi di fotografia (ero molto concentrato su di me e i miei progetti) eppure, assecondando alcune richieste, ho scoperto che mi piace insegnare. Lo stesso è accaduto con questi laboratori dove, oltre all’insegnamento, c’è una fase importante di incontro e conoscenza con i partecipanti e sviluppo di progetti individuali che però siano legati da un filo conduttore. Ho ricevuto diverse proposte per continuare a lavorare anche in questo settore e un paio di progetti saranno avviati questa estate e nel prossimo autunno. Anche questi li sento ormai come “miei progetti”, semplicemente sono svolti come se io e i partecipanti fossimo una sorta di collettivo.

Filippo, ci siamo conosciuti in occasione dei tuoi lavori Made in Korea & Korean Dream, un ambizioso progetto che intendeva mettere in relazione e a confronto le due Coree, gli esiti differenti di una storia tanto comune quanto, da un certo momento in poi, divergente. Come senti quei due lavori a qualche anno di distanza?
Sono lavori che stanno invecchiando bene. Le tematiche su cui ho focalizzato i due capitoli del progetto, uno sulla Corea del Sud e l’altro su quella del Nord, sono ancora molto attuali e i lavori, pur a distanza di diversi anni, stanno attirando ancora attenzioni, riconoscimenti e proposte espositive (alcune sono in sospeso, in attesa di capire come svolgerle compatibilmente con l’emergenza sanitaria). Sicuramente rappresentano un passaggio importante nel mio percorso di fotografo documentarista e anche come autore. A proposito, nel corso dell’ultimo anno mi sono annotato diversi temi e fenomeni, sempre riguardanti la penisola coreana, che vorrei approfondire e non escludo di tornarci nel prossimo futuro!

Filippo Venturi è nato a Cesena nel 1980. Fotografo documentarista. Realizza progetti su storie e problematiche riguardanti l’identità e la condizione umana. I suoi lavori sono stati pubblicati su giornali come The Washington Post, The Guardian, Financial Times, Newsweek, Geo, Vanity Fair e Internazionale. Negli ultimi anni si è dedicato a un progetto sulla penisola coreana. Insegna fotografia e conduce workshop fotografici nell’ambito di diversi progetti europei.

Con emuse ha pubblicato Made in Korea & Korean Dream.

E' uscito il libro sul Progetto My Dear by Filippo Venturi

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Fotografie di: Barbara Kulik, Graziella Paganelli, Ilaria Liu, Ilaria Zozzi, Khadija M'Goun, Kinga Paprota, Livia Cartas, Lorenza Fabbio, Mariama Dieng, Marina Bellavista, Nadiia Kovalchuk, Salomè Emperatriz San Martin, Svetlana Mocanu, Yujuan Chen.

Testi di:
Luciana Garbuglia (presidente dell’Unione Rubicone e Mare), Valeria Gentili (presidente dell’Associazione di promozione sociale Between), Elena Dolcini (Curatrice e Critica d’arte), Filippo Venturi (Fotografo e Docente del laboratorio)

Casa editrice Emuse, ISBN: 978-88-32007-42-8
Direttore editoriale: Grazia Dell’Oro
Coordinamento editoriale: Filippo Venturi
Progetto grafico: Denis Pitter


Il laboratorio “My Dear”, inserito all’interno del Progetto europeo Shaping Fair Cities, è stato rivolto a venti donne che vivono in Romagna (a Savignano sul Rubicone, Cesenatico, Sant'Angelo di Gatteo, San Mauro Pascoli e Gatteo) e coinvolte dall’Associazione Between. Le protagoniste sono di nove nazionalità diverse (italiana, rumena, polacca, bulgara, ucraina, cinese, peruviana, senegalese e marocchina), hanno un range di età che va da 22 a 65 anni e lavorano in diversi ambiti: assistenti familiari, impiegate, operaie, mediatrici culturali, bariste, ecc.

La finalità del laboratorio era il perseguimento dell’Obiettivo 5 dell’Agenda ONU 2030: “raggiungere l'uguaglianza di genere ed emancipare tutte le donne e le ragazze”.

Alle donne coinvolte nella realizzazione di un proprio progetto fotografico, sono state assegnate delle macchine fotografiche usa e getta con rullini da 27 scatti (con alcune eccezioni dettate da scelte tematiche o visive che hanno richiesto l'uso di altri mezzi). Questa scelta è stata dettata dal desiderio di fornire uno strumento di lavoro dedicato, che non fosse fonte di distrazione (come può essere uno smartphone) e col quale fosse necessario fermarsi a riflettere prima di fotografare, avendo un numero predefinito di tentativi. Avere delle limitazioni (di spostamento a causa della pandemia, di numero di scatti realizzabili, ecc.) spinge le persone a prendere coscienza della situazione e a ingegnarsi per trovare una via per esprimersi.

Il laboratorio è stato avviato nell’autunno 2020 ed è durato circa sei mesi. L’ideazione e la progettazione risalivano a dodici mesi prima, quando ancora le nostre vite non erano state stravolte dal Covid-19. La pandemia ha trasformato questo percorso rendendolo tortuoso e mettendone a rischio il raggiungimento del traguardo ma, presto, ha reso più coeso il gruppo, consentendogli di attraversare la tempesta e uscirne rafforzato.

La condivisione delle difficoltà nel periodo di emergenza sanitaria, gli stratagemmi digitali per mantenere il contatto anche quando il lockdown impediva di incontrarsi, il desiderio di raccontare con la fotografia le proprie vite, ha portato a un risultato profondo e interessante. Come spesso accade, le esperienze più segnanti sono quelle che si portano a termine fra imprevisti e difficoltà.

I progetti realizzati si sono focalizzati su storie personali, confidenze, ma anche sui rapporti sociali che abbiamo dovuto rivedere a causa del distanziamento sociale e dei dispositivi per prevenire il contagio. Da questo percorso è scaturito un universo di testimonianze costellato da sensibilità distinte, provenienze diverse, approcci disparati, ma tutte convergenti nel bisogno di ricevere e offrire, oggi più che mai, ascolto, comprensione e vicinanza.

Lo strumento fotografico per un lungo periodo è stato riservato a pochi professionisti. Da diverso tempo però si è assistito a un rapido processo di “democratizzazione” della fotografia. Chiunque può scattare una fotografia, anche senza strumentazione specifica, e può avere un ruolo da protagonista nel flusso comunicativo. Non solo, con le fotografie si può contribuire ad attivare processi sociali e influenzare la percezione pubblica.

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L'Arte di Vincere, di Phil Knight by Filippo Venturi

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Ieri notte, alle due, ho finito l'autobiografia di Phil Knight. Si tratta di un libro molto scorrevole che racconta come il fondatore della Nike sia passato dall'essere un ventenne curioso di vedere il mondo (in un'epoca dove si era mal visti nel viaggiare senza un motivo preciso, a partire da suo padre) e di realizzare il proprio sogno di vendere scarpe al diventare il fondatore del colosso che oggi tutti conosciamo.
Il libro narra i primi viaggi di Phil in Giappone, dove ancora riecheggiavano le due bombe nucleari e dove la differenza e diffidenza culturale creerà situazioni imbarazzanti e indecifrabili, col nostro eroe che ad un certo punto si troverà ad inventarsi il nome dell'azienda che ancora non ha creato per sottoscrivere un accordo preliminare con i giapponesi della Onitsuka, diventandone inaspettatamente il rivenditore per gli USA.
La narrazione prosegue raccontando l'evoluzione dell'azienda (con sullo sfondo il gigante Adidas), compreso il modo rocambolesco con cui sceglieranno il nome Nike ed il logo, e della vita personale dell'autore, mantenendo un tono informale, autoironico, trasmettendo al lettore il desiderio di dare il massimo nel proprio campo.
Sicuramente lodevole lo spazio dedicato ai suoi collaboratori, strambi e buffi, ma a cui riconosce la brillantezza e i meriti che hanno dimostrato nel proprio lavoro. Ne risente l'aspetto familiare, raccontato in modo discontinuo e superficiale, ma tutto sommato non ho sentito la necessità di un approfondimento.
La galoppata, iniziata negli anni '60 e durata fino agli inizi degli anni '80, si conclude con l'ultimo capitolo che compie un salto di 27 anni, siamo nel 2007, i ragazzi che hanno dato tutto per la Nike sono ormai anziani, il leggendario Bill Bowerman è morto, qualcuno ha "tradito" andando a lavorare per Adidas, altri si sono ritirati a vita privata e confesso che è stato un colpo basso pensare al tramonto di quel gruppo di giovani talenti.
Insomma un libro molto piacevole, interessante e stimolante, che consiglio.

"Alla mia sinistra c'era il Partenone, che Platone aveva visto costruire da squadre di architetti e muratori. Alla mia destra il tempio di Atena Nike. Duemilacinquecento anni prima, stando alla mia guida, avevo ospitato un bellissimo fregio della dea Atena, ritenuta portatrice di nike, la vittoria. [...] Non so quanto tempo rimasi li, ad assorbire l'energia e il potere di quel luogo epocale. Un'ora? Tre? Non so quanto tempo dopo ho scoperto una commedia di Aristofane ambientata nel tempio di Nike, in cui il guerriero dona al re... un paio di scarpe nuove. Non so quando mi resi conto che il titolo inglese di quell'opera era Knights. So che quando mi girai per andarmene notai la facciata marmorea del tempio, che gli artigiani greci avevano decorato con varie scene ammalianti, compresa la più famosa, in cui la dea si china inspiegabilmente... a riallacciarsi un sandalo."