Intervista con Emuse sul Laboratorio My Dear by Filippo Venturi

E’ uscito sul sito della Casa Editrice emuse, una intervista nella quale parlo dell’ultimo libro fatto insieme, “My Dear”, che contiene il risultato del Laboratorio fotografico omonimo che ho condotto, in collaborazione con l’associazione Between, nell’ambito del progetto europeo Shaping Fair Cities. Questo laboratorio ha visto protagoniste 20 donne di 9 nazionalità diverse!

L’articolo originale è disponibile qui: emuse incontra Filippo Venturi nella veste di insegnante e divulgatore di progetti fotografici

IL LIBRO

Fotografie di: Barbara Kulik, Graziella Paganelli, Ilaria Liu, Ilaria Zozzi, Khadija M'Goun, Kinga Paprota, Livia Cartas, Lorenza Fabbio, Mariama Dieng, Marina Bellavista, Nadiia Kovalchuk, Salomè Emperatriz San Martin, Svetlana Mocanu, Yujuan Chen.

Testi di:
Luciana Garbuglia (presidente dell’Unione Rubicone e Mare), Valeria Gentili (presidente dell’Associazione di promozione sociale Between), Elena Dolcini (Curatrice e Critica d’arte), Filippo Venturi (Fotografo e Docente del laboratorio)

Casa editrice Emuse, ISBN: 978-88-32007-42-8
Direttore editoriale: Grazia Dell’Oro
Coordinamento editoriale: Filippo Venturi
Progetto grafico: Denis Pitter

Il laboratorio “My Dear”, inserito all’interno del Progetto europeo Shaping Fair Cities, è stato rivolto a venti donne che vivono in Romagna (a Savignano sul Rubicone, Cesenatico, Sant'Angelo di Gatteo, San Mauro Pascoli e Gatteo) e coinvolte dall’Associazione Between. Le protagoniste sono di nove nazionalità diverse (italiana, rumena, polacca, bulgara, ucraina, cinese, peruviana, senegalese e marocchina), hanno un range di età che va da 22 a 65 anni e lavorano in diversi ambiti: assistenti familiari, impiegate, operaie, mediatrici culturali, bariste, ecc.

La finalità del laboratorio era il perseguimento dell’Obiettivo 5 dell’Agenda ONU 2030: “raggiungere l'uguaglianza di genere ed emancipare tutte le donne e le ragazze”.

Alle donne coinvolte nella realizzazione di un proprio progetto fotografico, sono state assegnate delle macchine fotografiche usa e getta con rullini da 27 scatti (con alcune eccezioni dettate da scelte tematiche o visive che hanno richiesto l'uso di altri mezzi). Questa scelta è stata dettata dal desiderio di fornire uno strumento di lavoro dedicato, che non fosse fonte di distrazione (come può essere uno smartphone) e col quale fosse necessario fermarsi a riflettere prima di fotografare, avendo un numero predefinito di tentativi. Avere delle limitazioni (di spostamento a causa della pandemia, di numero di scatti realizzabili, ecc.) spinge le persone a prendere coscienza della situazione e a ingegnarsi per trovare una via per esprimersi.

Il laboratorio è stato avviato nell’autunno 2020 ed è durato circa sei mesi. L’ideazione e la progettazione risalivano a dodici mesi prima, quando ancora le nostre vite non erano state stravolte dal Covid-19. La pandemia ha trasformato questo percorso rendendolo tortuoso e mettendone a rischio il raggiungimento del traguardo ma, presto, ha reso più coeso il gruppo, consentendogli di attraversare la tempesta e uscirne rafforzato.

La condivisione delle difficoltà nel periodo di emergenza sanitaria, gli stratagemmi digitali per mantenere il contatto anche quando il lockdown impediva di incontrarsi, il desiderio di raccontare con la fotografia le proprie vite, ha portato a un risultato profondo e interessante. Come spesso accade, le esperienze più segnanti sono quelle che si portano a termine fra imprevisti e difficoltà.

I progetti realizzati si sono focalizzati su storie personali, confidenze, ma anche sui rapporti sociali che abbiamo dovuto rivedere a causa del distanziamento sociale e dei dispositivi per prevenire il contagio. Da questo percorso è scaturito un universo di testimonianze costellato da sensibilità distinte, provenienze diverse, approcci disparati, ma tutte convergenti nel bisogno di ricevere e offrire, oggi più che mai, ascolto, comprensione e vicinanza.

Lo strumento fotografico per un lungo periodo è stato riservato a pochi professionisti. Da diverso tempo però si è assistito a un rapido processo di “democratizzazione” della fotografia. Chiunque può scattare una fotografia, anche senza strumentazione specifica, e può avere un ruolo da protagonista nel flusso comunicativo. Non solo, con le fotografie si può contribuire ad attivare processi sociali e influenzare la percezione pubblica.

L’INTERVISTA

Filippo Venturi ha recentemente organizzato un laboratorio fotografico in collaborazione con l’associazione Between nell’ambito del progetto europeo Shaping Fair Cities. Il laboratorio ha coinvolto venti donne di diverse nazionalità residenti in Romagna e dai loro lavori è nato un libro edito da emuse: My Dear.

Grazia Dell’Oro l’ha intervistato.

Filippo, durante questo ultimo anno, nonostante la situazione pandemica, sei stato molto attivo. Hai prodotto lavori che sono stati pubblicati su importanti riviste. In che modo questa nuova situazione che stiamo vivendo ti ha stimolato?
Inizialmente la pandemia ha rappresentato un blocco: oltre a dover rinunciare ad un grosso progetto in Cina, molti eventi che avrei dovuto documentare solo saltati. Per fortuna, pochi giorni dopo l’inizio del primo lockdown in Italia, qualcosa è scattato dentro di me e ho iniziato a documentare la pandemia sotto tutti i punti di vista che ritenevo interessanti. Solitamente non lavoro sulla stretta attualità, ma in questo caso mi sono trovato proprio al centro dell’attualità (l’Italia è stato il primo paese occidentale a subire i primi gravi effetti del Covid-19). Il primissimo lavoro che ho svolto è stato ritrarre e intervistare 40 rider sul cancello di casa mia; un’idea semplice ma efficace per adattarmi ai limiti imposti dal lockdown e che ha colpito molto i photoeditor di The Guardian che gli hanno dato ampio spazio. Poi, spinto dai primi buoni risultati, ho continuato la mia documentazione anche all’esterno, nel mio quartiere, in ospedale, nelle case dei malati, nel settore teatrale, ecc. e sono arrivate pubblicazioni su The Washington Post, Marie Claire, La Repubblica, Il Sole 24 Ore, ecc. È stata una esperienza molto formativa e positiva. Sono soddisfatto della reazione che ho avuto: tentare di rimanere lucido e attivo. Penso che ciò mi abbia permesso anche di non subire troppo gli effetti psicologici negativi di questo evento epocale.

My Dear è stato pensato come laboratorio di fotografia partecipativa. Come è nato e quale è stato l’intento del lavoro che hai condotto con le donne che hanno aderito?
Da alcuni anni mi è capitato di essere coinvolto, da parte di alcune Associazioni con cui avevo già collaborato, in alcuni progetti finanziati dall’Unione Europea o da altri Enti statali. È un settore che, se sfruttato a dovere (non a caso ci sono professionisti che si specializzano nel cercare questi bandi e nel preparare i progetti), consente di accedere a risorse importanti per sviluppare percorsi molto utili a livello sociale e anche artistico. Il laboratorio My Dear nasce all’interno del Progetto europeo Shaping Fair Cities ed ha come finalità perseguire l’obiettivo 5 dell’Agenda ONU 2030, cioè “raggiungere l’uguaglianza di genere ed emancipare tutte le donne e le ragazze”.

Credo che si possa dire che gli esiti del laboratorio sono stati superiori alle aspettative, per qualità e coerenza dei lavori fotografici. Quando ti sei reso conto che, in qualche modo, l’idea aveva attecchito?
In una prima fase mi ha colpito notevolmente la partecipazione delle venti donne che si sono interessate al laboratorio. Con la pandemia che colpiva ripetutamente il paese e rendeva impossibile condurre una vita sociale normale, mi ero rassegnato a veder ridursi il numero delle partecipanti, invece c’è stato uno spirito di adattamento notevole: se non potevamo incontrarci di persona, organizzavamo delle webcall, se non tutte riuscivano ad essere presenti, organizzavamo delle sessioni dedicate in qualunque giorno della settimana e orario. Se nemmeno quello era possibile, usavamo Whatsapp per comunicare, vedere il materiale prodotto e confrontarci. A livello umano è stata una esperienza incredibile e questo desiderio comune di portare a termine il percorso iniziato insieme avrebbe rappresentato già un grande traguardo. Poi, vedendo il frutto dei loro progetti, pur non essendo fotografe esperte, mi rendo conto che il risultato è andato oltre ogni aspettativa!

Come intendi sviluppare le esperienze che stai raccogliendo come insegnante o animatore di gruppi che hanno come obiettivo l’indagine sul tema dell’identità attraverso il mezzo fotografico?
Fino a qualche anno fa non mi vedevo a tenere corsi di fotografia (ero molto concentrato su di me e i miei progetti) eppure, assecondando alcune richieste, ho scoperto che mi piace insegnare. Lo stesso è accaduto con questi laboratori dove, oltre all’insegnamento, c’è una fase importante di incontro e conoscenza con i partecipanti e sviluppo di progetti individuali che però siano legati da un filo conduttore. Ho ricevuto diverse proposte per continuare a lavorare anche in questo settore e un paio di progetti saranno avviati questa estate e nel prossimo autunno. Anche questi li sento ormai come “miei progetti”, semplicemente sono svolti come se io e i partecipanti fossimo una sorta di collettivo.

Filippo, ci siamo conosciuti in occasione dei tuoi lavori Made in Korea & Korean Dream, un ambizioso progetto che intendeva mettere in relazione e a confronto le due Coree, gli esiti differenti di una storia tanto comune quanto, da un certo momento in poi, divergente. Come senti quei due lavori a qualche anno di distanza?
Sono lavori che stanno invecchiando bene. Le tematiche su cui ho focalizzato i due capitoli del progetto, uno sulla Corea del Sud e l’altro su quella del Nord, sono ancora molto attuali e i lavori, pur a distanza di diversi anni, stanno attirando ancora attenzioni, riconoscimenti e proposte espositive (alcune sono in sospeso, in attesa di capire come svolgerle compatibilmente con l’emergenza sanitaria). Sicuramente rappresentano un passaggio importante nel mio percorso di fotografo documentarista e anche come autore. A proposito, nel corso dell’ultimo anno mi sono annotato diversi temi e fenomeni, sempre riguardanti la penisola coreana, che vorrei approfondire e non escludo di tornarci nel prossimo futuro!

Filippo Venturi è nato a Cesena nel 1980. Fotografo documentarista. Realizza progetti su storie e problematiche riguardanti l’identità e la condizione umana. I suoi lavori sono stati pubblicati su giornali come The Washington Post, The Guardian, Financial Times, Newsweek, Geo, Vanity Fair e Internazionale. Negli ultimi anni si è dedicato a un progetto sulla penisola coreana. Insegna fotografia e conduce workshop fotografici nell’ambito di diversi progetti europei.

Con emuse ha pubblicato Made in Korea & Korean Dream.

Interchange Festival, Batumi (Georgia) by Filippo Venturi

(English version below)

Nei giorni scorsi ha inaugurato il Festival Interchange di Batumi (in Georgia), dove è esposto anche il mio lavoro sul Kazakistan “2030 Birth of a Metropolis”, grazie al premio vinto l’anno scorso! Una anteprima del lavoro è visibile qui: 2030 Birth of a Metropolis.

Il 6 luglio 2018 (Capital Day) il Kazakistan ha festeggiato il 20° anniversario della capitale, Astana.
In precedenza era Almaty a godere di questo ruolo ma, nel 1997, il presidente Nazarbayev decise di nominare una nuova capitale in posizione più centrale, lontana da zone altamente sismiche e progettata a tavolino per trasformare quella che era una città di provincia (Akmola, rinominata Astana nel 1998) in una delle metropoli più moderne al mondo.

Per raggiungere il suo scopo, il Kazakistan ha sfruttato gli enormi giacimenti di risorse naturali che possiede (il solo petrolio costituisce il 20% del PIL, il 50% delle entrate di bilancio e il 60% delle esportazioni). Il progetto, che dovrebbe completarsi nel 2030, prevede che la capitale spazierà su un'area complessiva di 710 km². Dietro il sogno di Astana c’è Nursultan Nazarbayev, alla guida del paese da 28 anni e che, nelle ultime elezioni del 2015, ha ottenuto l’ennesima conferma come Presidente con il 97,75% dei voti.

Astana è una città in costruzione ma già oggi sfoggia uno skyline futuristico a cui hanno contribuito archistar internazionali come il giapponese Kisho Kurokawa e l’inglese Norman Foster. “La Dubai della steppa” — così viene chiamata — non mostra più traccia delle vecchie atmosfere sovietiche, ma rappresenta una città avveniristica, un desiderio di futuro e ricchezza, un’utopia di vetro e di riflessi che esibisce l’ambizione di un paese intero di ottenere il riconoscimento internazionale dal punto di vista politico e strategico, al centro dell’Eurasia e lungo la nuova Via della Seta.

Alla vertiginosa crescita artificiale dell’architettura e dei costi per vivere nella città non sta però corrispondendo un’altrettanto rapido aumento della popolazione: oggi di 800.000 persone, ma nelle previsioni avrebbe dovuto toccare il milione già nel 2012.

* Nel marzo 2019 il Parlamento ha cambiato il nome di Astana in Nur-Sultan, in onore del presidente dimissionario Nursultan Nazarbayev (che ha comunque mantenuto altre cariche importanti che gli consentono di governare il paese).

(Testo in italiano sopra)

In recent days, Interchange Festival inaugurated in Batumi (Georgia), where my work on Kazakhstan “2030 Birth of a Metropolis” is also exhibited. A preview of the work is visible here: 2030 Birth of a Metropolis.

On July 6th 2018 (Capital Day) Kazakhstan has celebrated the 20th anniversary of the capital city, Astana.
Almaty had enjoyed previously that role, but in 1997 President Nazarbayev decided to appoint a new capital city, set in a more central position far away from highly seismic zones and, most of all, designed to transform a small regional town (Akmola, renamed Astana in 1998) in one of the most modern metropolis in the world.

To reach its goal, Kazakhstan has exploited its massive reserves of natural sources (petrol on its own accounts for 20% of its GDP, 50% of financial income and 60% of export). The project shall be completed in 2030 and it implies that the capital will cover a total area of 710 km2.
Behind Astana’s dream there is Nursultan Nazarbayev, who has lead the country for 28 years and has been confirmed as President at the last election in 2015 with the 97, 75% of the votes.

Astana is still under construction, but even today it shows a futuristic skyline achieved with the contribution of international world-renewed architects such as the Japanese Kisho Kurokawa and the English Norman Foster. In “The Dubai of the steppe” — as it is called — there is no more trace of the old Soviet atmospheres: Astana today represents a forward-looking city, a desire of future and prosperity, an utopia made of glass and reflections which shows off the entire country ambition to be internationally recognized as the political and strategic Eurasian centre, along the new Silk Road.

The population, which is today of 800.000 people: in the forecast it should have already reached one million in 2012. To the staggering architectural growth and the increase of the cost of living did not correspond an equally fast increase of the population wealth; most of the inhabitants are forced to live in the city’s outskirts.

* In March 2019, the Parliament changed the name of Astana to Nur-Sultan, in honor of the outgoing president Nursultan Nazarbayev (who nevertheless retained other important positions that allow him to govern the country).

E' uscito il libro sul Progetto My Dear by Filippo Venturi

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Fotografie di: Barbara Kulik, Graziella Paganelli, Ilaria Liu, Ilaria Zozzi, Khadija M'Goun, Kinga Paprota, Livia Cartas, Lorenza Fabbio, Mariama Dieng, Marina Bellavista, Nadiia Kovalchuk, Salomè Emperatriz San Martin, Svetlana Mocanu, Yujuan Chen.

Testi di:
Luciana Garbuglia (presidente dell’Unione Rubicone e Mare), Valeria Gentili (presidente dell’Associazione di promozione sociale Between), Elena Dolcini (Curatrice e Critica d’arte), Filippo Venturi (Fotografo e Docente del laboratorio)

Casa editrice Emuse, ISBN: 978-88-32007-42-8
Direttore editoriale: Grazia Dell’Oro
Coordinamento editoriale: Filippo Venturi
Progetto grafico: Denis Pitter


Il laboratorio “My Dear”, inserito all’interno del Progetto europeo Shaping Fair Cities, è stato rivolto a venti donne che vivono in Romagna (a Savignano sul Rubicone, Cesenatico, Sant'Angelo di Gatteo, San Mauro Pascoli e Gatteo) e coinvolte dall’Associazione Between. Le protagoniste sono di nove nazionalità diverse (italiana, rumena, polacca, bulgara, ucraina, cinese, peruviana, senegalese e marocchina), hanno un range di età che va da 22 a 65 anni e lavorano in diversi ambiti: assistenti familiari, impiegate, operaie, mediatrici culturali, bariste, ecc.

La finalità del laboratorio era il perseguimento dell’Obiettivo 5 dell’Agenda ONU 2030: “raggiungere l'uguaglianza di genere ed emancipare tutte le donne e le ragazze”.

Alle donne coinvolte nella realizzazione di un proprio progetto fotografico, sono state assegnate delle macchine fotografiche usa e getta con rullini da 27 scatti (con alcune eccezioni dettate da scelte tematiche o visive che hanno richiesto l'uso di altri mezzi). Questa scelta è stata dettata dal desiderio di fornire uno strumento di lavoro dedicato, che non fosse fonte di distrazione (come può essere uno smartphone) e col quale fosse necessario fermarsi a riflettere prima di fotografare, avendo un numero predefinito di tentativi. Avere delle limitazioni (di spostamento a causa della pandemia, di numero di scatti realizzabili, ecc.) spinge le persone a prendere coscienza della situazione e a ingegnarsi per trovare una via per esprimersi.

Il laboratorio è stato avviato nell’autunno 2020 ed è durato circa sei mesi. L’ideazione e la progettazione risalivano a dodici mesi prima, quando ancora le nostre vite non erano state stravolte dal Covid-19. La pandemia ha trasformato questo percorso rendendolo tortuoso e mettendone a rischio il raggiungimento del traguardo ma, presto, ha reso più coeso il gruppo, consentendogli di attraversare la tempesta e uscirne rafforzato.

La condivisione delle difficoltà nel periodo di emergenza sanitaria, gli stratagemmi digitali per mantenere il contatto anche quando il lockdown impediva di incontrarsi, il desiderio di raccontare con la fotografia le proprie vite, ha portato a un risultato profondo e interessante. Come spesso accade, le esperienze più segnanti sono quelle che si portano a termine fra imprevisti e difficoltà.

I progetti realizzati si sono focalizzati su storie personali, confidenze, ma anche sui rapporti sociali che abbiamo dovuto rivedere a causa del distanziamento sociale e dei dispositivi per prevenire il contagio. Da questo percorso è scaturito un universo di testimonianze costellato da sensibilità distinte, provenienze diverse, approcci disparati, ma tutte convergenti nel bisogno di ricevere e offrire, oggi più che mai, ascolto, comprensione e vicinanza.

Lo strumento fotografico per un lungo periodo è stato riservato a pochi professionisti. Da diverso tempo però si è assistito a un rapido processo di “democratizzazione” della fotografia. Chiunque può scattare una fotografia, anche senza strumentazione specifica, e può avere un ruolo da protagonista nel flusso comunicativo. Non solo, con le fotografie si può contribuire ad attivare processi sociali e influenzare la percezione pubblica.

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Reportage per Internazionale by Filippo Venturi

Su Internazionale è uscito il mio servizio fotografico su Ravenna, dove “è in corso una battaglia che va ben oltre i confini della città: si tratta di capire come produrre e consumare energia in Italia nei decenni a venire”. Reportage di Marina Forti. Photoeditor: Giovanna D’Ascenzi.

Qui il link all’articolo: Ravenna è il banco di prova per il futuro energetico in Italia

Laboratorio Fotografico by Filippo Venturi

Foto di Barbara Kulik

Nonostante la pandemia, i lockdown e altre complicazioni, negli ultimi 6 mesi siamo riusciti a condurre un laboratorio fotografico e a tenerlo unito (fra incontri di persona, webcall, telefonate, chat e altro), coinvolgendo 20 donne di 9 nazionalità diverse.
Ce l'abbiamo messa tutta e pensiamo di aver compiuto un piccolo ma importante passo sul (purtroppo lungo) percorso che porterà al raggiungimento dell'uguaglianza di genere e dell'emancipazione di donne e ragazze, perseguendo il programma dell’Agenda ONU 2030. Uscirà anche un libro che raccoglierà il frutto del lavoro di tante persone. Presto maggiori dettagli sulle istituzioni e le persone che hanno reso possibile il tutto!

Yuval Noah Harari, Tre lezioni per il futuro by Filippo Venturi

"L'anno del Covid ha evidenziato il ruolo cruciale che molti lavori pagati poco svolgono nel mantenimento della civiltà umana: infermieri, operatori sanitari, camionisti, cassieri, addetti alle consegne. [...] Nel 2020 i fattorini sono stati il filo rosso che ha tenuto insieme la civiltà. Sono diventati la nostra importantissima linea di comunicazione con il mondo fisico."

Su Internazionale c'è un interessante articolo di Yuval Noah Harari per il Financial Times sulla pandemia. Fra le varie osservazioni che compie, mi rincuora vedere che anche uno storico del suo calibro abbia riconosciuto l'importanza dei fattorini/rider durante il lockdown e che, personalmente, sono stati il primo progetto che ho affrontato nei primissimi giorni in cui eravamo confinati in casa.

Qui l’articolo originale: Yuval Noah Harari: Lessons from a year of Covid

Parliamo di FotograFIAF by Filippo Venturi

Oltre 350 persone hanno seguito l'incontro del ciclo "Parliamo di FotograFIAF", in cui il sottoscritto e Cristina Paglionico hanno dialogato con l'affermata artista forlivese Silvia Camporesi dei suoi progetti. Era la prima volta che partecipavo in qualità di "esperto" e devo dire che il clima cordiale e professionale ha fatto volare le 2 ore della conferenza online.

Il ciclo di incontri è organizzato da FIAF | Federazione Italiana Associazioni Fotografiche che, durante l'ultimo anno di emergenza sanitaria, ha messo in piedi un sistema di eventi online che ha consentito a tutti gli appassionati di fotografia di rimanere in contatto e la partecipazione di centina di persone ad ogni diretta ne dimostra l'apprezzamento!

Incontro sulla Corea del Nord e del Sud by Filippo Venturi

FILIPPO VENTURI ci racconta LE DUE COREE A CONFRONTO: NORD E SUD

I progetti sulla penisola coreana del fotografo Filippo Venturi raccontano il moderno e ambizioso Sud e l’ermetico e inaccessibile Nord. Le differenze, ma anche le somiglianze, di un popolo separato da 70 anni e che oggi vive in due mondi opposti a livello politico, economico e sociale.

Martedì 9 Marzo 2021, ore 21.00.
Vi accoglieremo sulla nostra piattaforma virtuale a partire dalle 20.45 e alle 21.00 inizieremo il nostro viaggio.

Fra il 2015 e il 2017 il fotografo ha svolto un progetto a lungo termine sulla penisola coreana documentando, in Corea del Sud, l’incredibile crescita economica e tecnologica basata sull’estrema competizione instillata fra i giovani che però ha prodotto anche effetti collaterali gravi e, in Corea del Nord (come inviato di Vanity Fair), la pressione esercitata dalla propaganda dalla dittatura della dinastia dei Kim sui giovani, volta a preparare il paese per la guerra contro gli USA e al sogno di riunificazione sotto la guida del Supremo Leader Kim Jong-un.

Filippo Venturi, fotografo documentarista, realizza progetti su storie e problematiche riguardanti l’identità e la condizione umana. I suoi lavori sono stati pubblicati su The Washington Post, The Guardian, Financial Times, Newsweek, Vanity Fair, Internazionale e altri. Il progetto sulla penisola coreana gli è valso diversi premi fra cui il Sony World Photography Awards e il Portfolio Italia – Gran Premio Hasselblad. I suoi lavori sono stati esposti in Italia e all’estero: fra cui il Foro Boario di Modena come “Nuovo Talento” di Fondazione Fotografia, il MACRO di Roma, la Somerset House di Londra, lo U Space di Pechino e il Sony Square di New York City

Filippo Venturi, autore del progetto, guiderà il nostro viaggio. Moderatrice: Valentina Binda, responsabile di Karis. Interventi a cura di Cristina Silvera, storica dell’arte, e Mirko Bonfanti, caporedattore di Discorsi Fotografici Magazine.

Il tour avverrà in diretta, per circa 60 minuti, in modalità webinar, con spazio finale per domande. Per seguire la diretta basterà disporre di pc o tablet connessi stabilmente a internet. La mattina stessa della diretta verrà inviato via mail il link per il collegamento alla stanza virtuale.

TERMINE ISCRIZIONE E PAGAMENTI

QUOTA DI PARTECIPAZIONE: 13.- fr / 12 €

I posti disponibili sono limitati, per consentire eventuali domande. Potrete seguire la nostra diretta da pc o tablet, connessi a internet, facilmente e senza dover scaricare nessun programma. Per una fruizione ottimale della visita si sconsiglia l’utilizzo dello smartphone.
La durata prevista è di circa 60 minuti e al termine ci sarà spazio per eventuali domande all’autore.

Iscrizioni entro il 6 Marzo scrivendo a info@karisevents.com

Eventuali rinunce dopo l’iscrizione e il saldo comporteranno la perdita dell’intera quota di iscrizione.
Karis non sarà responsabile di eventuali problemi tecnici o di connessione internet da parte dei partecipanti.

Link al sito ufficiale: FILIPPO VENTURI ci racconta LE DUE COREE A CONFRONTO: NORD E SUD

Intervista per Discorsi Fotografici Magazine by Filippo Venturi

E’ uscita oggi, su Discorsi Fotografici Magazine, una mia intervista sulla fotografia documentaria e sui miei lavori fotografici, a cura di Mirko Bonfanti :)

L’articolo originale è disponibile al seguente link: La fotografia documentaria di Filippo Venturi

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La fotografia italiana ha sempre avuto una forte caratterizzazione documentaria: pensiamo a personaggi del calibro di Patellani, De Biasi, Dondero, Lucas, solo per citarne alcuni. Questa eredità identitaria viene tuttora rispettata e portata coraggiosamente avanti da una schiera di giovani leve che, spesso e volentieri, ricevono importanti riconoscimenti, più all’estero che in terra natia. Il genere fotografico del reportage soffre da tempo la crisi dell’editoria, inoltre l’elevata concorrenza rende complesso distinguersi ed emergere dalla massa di proposte. Chi ci riesce opera un serio lavoro di pianificazione a tavolino sui temi da affrontare, sulle modalità, sul linguaggio e sullo stile, con impegno e determinazione. E lascia poco margine al caso. Filippo Venturi, cesenate, è un fotografo documentarista che realizza progetti personali che indagano temi quali l’identità e la condizione umana. Collabora con magazine e quotidiani italiani ed esteri, ed ha vinto numerosi premi fra i quali il Sony World Photography Awards, il LensCulture Emerging Talent Awards, il Premio Il Reportage, il Premio Voglino e si è aggiudicato il Portfolio Italia – Gran Premio Hasselblad.

Qual è la tua personale storia della fotografia?
Il mio primo incontro con la fotografia non è stato particolarmente romantico. Mi sarebbe piaciuto che, a introdurmi in questo grande linguaggio, fosse stato un genitore o un nonno, ma in realtà è stata una scoperta solitaria e tardiva. Avevo già 28 anni e una formazione da informatico alle spalle, quando osservando alcuni progetti fotografici online, con un interesse più intenso del solito, è esploso il desiderio di imparare a fotografare. Ho così iniziato a studiare partendo da un corso di Silvia Camporesi (artista visiva oggi molto affermata), che mi è stato utile per approcciarmi all’utilizzo progettuale della fotografia, andando quindi oltre la singola bella immagine. Poi ho approfondito la tecnica e altri aspetti. Dal 2010 ho iniziato a lavorare con questo mezzo ma non ho mai smesso di studiare e osservare i lavori altrui.

Come nasce e quali sono le scintille che alimentano il tuo interesse fotografico verso la documentazione dell’uomo, della sua condizione, della sua identità?
Nei primi anni da fotografo mi è capitato di fare di tutto: fotografo sportivo (che ancora oggi svolgo per alcune società di calcio e rugby), fotografo di scena a teatro (ancora oggi continuo), matrimoni, concerti e altro ancora. È stata una gavetta molto importante perché mi ha permesso di allenare la capacità di adattamento e anche di capire cosa realmente mi interessava. Nel 2012 ho svolto quello che considero il mio primo progetto (In Oblivion, a New York), in cui non mi trovavo a documentare un evento o qualcosa di già programmato, ma ero io a individuare un tema e a cercare di raccogliere materiale per sviluppare quella storia. All’epoca ebbe un buon riscontro, lo considerai un test superato, e questo mi diede la convinzione di continuare su quella strada e cercare di migliorarmi. Continuando con altri lavori di documentazione, ho capito che a me interessano le persone, la loro identità, le loro storie e che quando riesco a ripagare la loro fiducia nell’aprirsi e farsi fotografare, dando visibilità alla problematica in questione, mi sento realizzato.

Quanto è complesso in un mondo concorrenziale come quello di oggi creare progetti vendibili che siano originali e che abbinino una autorialità che emerga dalla massa?
Internet ha rappresentato una grande opportunità per molti lavoratori e, fra questi, anche i fotografi. Io, ad esempio, vivendo in una città di media grandezza, lontana dai grandi centri della fotografia, ho sfruttato quel mezzo per far arrivare i miei lavori in tutto il mondo con pochi click. Ovviamente questa opportunità agevolerà tutti i fotografi, compresi (giustamente) quelli che vivono in paesi dove era ancora più difficile mettersi in luce. In futuro immagino che avremo sempre più grandi fotografi russi, indiani, cinesi, ecc riconosciuti a livello internazionale. A questo punto, quindi, diventa essenziale puntare sulla produzione di lavori di qualità, originali, sensibili e che sappiano anche anticipare i tempi, oppure coprire tematiche ad ampio raggio che rimarranno attuali e interessanti per anni. Inoltre, potendo vedere più facilmente, grazie ad Internet, cosa è già stato fatto su un certo tema o una certa storia, è possibile evitare di rifare inconsapevolmente qualcosa e, anzi, ci dà l’opportunità di puntare più in alto, cercando di approfondire in maniera unica e completa l’argomento in questione. Per fare qualcosa di irripetibile o quasi.

Molti appassionati di fotografia non immaginano quanto poco tempo un professionista passi a scattare fotografie, piuttosto che studiare, documentarsi, confrontare il lavoro degli altri, verificare, organizzare, fare lavori di scrivania. Lo confermi anche tu?
Lo confermo, purtroppo! Nel senso che la fase di scatto è quella in cui sento di più l’adrenalina, sia quando sto andando a incontri programmati con persone o eventi, sia quando devo improvvisare e sento che qualcosa sta per accadere attorno a me e devo essere pronto a catturarlo.
Per il lavoro “Made in Korea”, sulla Corea del Sud, ho trascorso quasi un anno a raccogliere materiale, notizie, informazioni, a guardare i lavori fotografici già svolti, a procurarmi contatti sul posto che potessero facilitarmi gli spostamenti e gli incontri con i giovani sudcoreani, fino a farmi un vero e proprio programma di quello che avrei fatto, giorno per giorno. Chiaramente parliamo di fotografia: programmare è essenziale, ma altrettanto è cogliere quelle situazioni che la realtà ti regala e che non potevi immaginare o prevedere. Alla fine “Made in Korea” è composto e bilanciato da fotografie cercate (fatte in determinati luoghi e situazioni legate al tema che stavo approfondendo) e da scatti “trovati” fortuitamente durante gli spostamenti o in situazioni che non avevo previsto.

Quello appena trascorso è stato un anno drammatico e particolare. Tu non sei stato con le mani in mano e hai prodotto ben 11 lavori sul Covid, andando ad analizzare in modo originale diverse tematiche, anche intime e personali. Puoi raccontarci come hai vissuto la pandemia e come sei riuscito a trovare le idee e a quale di questi progetti sei più legato?
La pandemia ha mandato all’aria tutti i miei piani per il 2020. Uno di questi era il progetto di un lungo viaggio in Cina per il quale avevo già trovato nei mesi precedenti sponsor, guide, autista, ecc. È stata una bella botta vederlo rimandato! A marzo, quando il Covid-19 ha iniziato a colpire duramente l’Italia, siamo finiti al centro dell’attenzione mondiale. Il nostro paese sembrava, in modo assurdo, l’unica nazione occidentale vittima del virus, all’epoca lessi diverse critiche al nostro paese, a livello sanitario e organizzativo, ma per me era prevedibile che il virus avrebbe colpito ovunque. Era soltanto questione di tempo. Ho quindi pensato a come potevo sfruttare la situazione: il mondo voleva notizie e fotografie dall’Italia e io potevo mostrare come stavamo vivendo la pandemia. I primi tre lavori realizzati, che ancora oggi sento particolarmente, hanno riguardato il mio lockdown da casa.

Il primo è focalizzato su come mio figlio di due anni, Ulisse, avesse reagito a quella situazione: il poter stare quasi tutto il tempo con i genitori, ma impossibilitato a uscire, il suo riscoprire la casa venendo meno il resto del suo mondo (l’asilo, i nonni, gli amici). Questo lavoro è uscito su The Washington Post e altri giornali. Il secondo lavoro è sui fattorini delle consegne a domicilio: ho ritratto e intervistato 40 rider sul cancello di casa mia, cioè il nuovo confine del mio mondo. L’idea è arrivata un sabato sera, quando ho ordinato la pizza e nell’attesa mi sono domandato come potesse apparire ai loro occhi questo mondo svuotato, con soltanto loro in circolazione e “costretti” a incontrare persone durante una pandemia, senza sapere magari se chi aveva effettuato l’ordine si trovava in quarantena. Questo progetto è uscito su The Guardian, Il Sole 24 Ore e altri giornali. Nel terzo lavoro ho emulato James Stewart nel film di Alfred Hitchcock “La finestra sul cortile”, cioè ho documentato dalla mia finestra le attività dei miei vicini, che in quel periodo stavano riscoprendo i propri balconi, il proprio giardino e altri spazi all’aperto solitamente trascurati. Questo progetto è uscito su The Cut New York Magazine e altri. In seguito ho documentato un Hotel Covid-19 nella mia città, Forlì; ho raccontato il lockdown dei teatri della regione Emilia Romagna e la riapertura degli stessi in giugno; ho raccontato le aree giochi dei bambini chiuse nei parchi; come circa 60 famiglie di 8 condomini vicini avessero reagito al lockdown, aiutandosi a vicenda e anche facendo amicizia; il nuovo modo di viaggiare in Italia e di percepire la libertà di spostarsi. Negli ultimi due mesi del 2020 ho iniziato un lungo lavoro di documentazione dei servizi dell’AUSL del mio territorio, in particolare documentando i reparti Covid-19 e le squadre USCA (Unità Speciali di Continuità Assistenziale), cioè squadre di giovani medici addetti al monitoraggio e all’assistenza domiciliare dei malati di Covid-19 e che valutano quali malati ricoverare e quali no. Questo mi ha permesso quindi di raccontare la pandemia dai loro occhi e come questa abbia violato anche quello spazio che consideriamo il nostro rifugio sicuro, la casa.

I tuoi progetti Korean Dream e Made in Korea hanno ottenuto un grande successo per la qualità, lo stile e la freschezza del racconto per immagini. Come sei riuscito a restituire uno sguardo scevro da pregiudizi, come hai lavorato sul posto e cosa ti sei portato a casa da queste esperienze?
Penso che l’aver pianificato a lungo questi progetti e l’essermi documentato minuziosamente sulle caratteristiche sociali dei due paesi che avrei voluto fotografare, mi abbia reso consapevole di cosa stavo per affrontare. Avevo ben chiaro che tipo di scatti stavo cercando e che tipo di contraddizioni e aspetti volevo mostrare. In Corea del Sud non avevo alcun tipo di limitazione e quindi ho potuto procedere come da programma: avevo organizzato diversi incontri, interviste, visite a università e altri luoghi che erano legati alla tematica che affrontavo. Alcune situazioni le ho trovate fortuitamente e questo è un aspetto che adoro della fotografia: la realtà può ostacolare i tuoi piani, ma può anche farti vivere circostanze non prevedibili che ti permettono di creare fotografie migliori di quelle che potevi immaginare. Di quel viaggio ricordo le persone incontrate, i momenti in cui si sono confidate con me e anche le pause nelle quali condividevamo pasti e confidenze. Sono finito in un noraebang, un palazzo adibito interamente a karaoke e in ristoranti che da solo non avrei mai trovato, ma ho anche visto coi miei occhi il problema delle pensioni insufficienti che costringe molti anziani a dormire in strada. Ho ascoltato le storie di italiani andati a vivere con entusiasmo in Corea del Sud che, una volta finiti dentro i meccanismi sociali del paese, hanno sofferto lo stesso stress e le stesse problematiche dei coetanei coreani, cose che restano invisibili quando si visita il paese da semplice turista.

In Corea del Nord, invece, la musica è stata ben diversa. La dittatura che governa il paese da 70 anni non consente una interazione spontanea dei giornalisti stranieri con la popolazione, ti obbliga a farti assistere da guide che in realtà sono controllori (io e la giornalista con cui sono andato avevamo 4 persone a seguirci nei nostri spostamenti quotidiani), non ti consente di comunicare col resto del mondo (non c’è l’Internet che conosciamo noi) e mette i microfoni nella stanza dove alloggi. Conscio di tutto questo, ho dovuto escogitare il modo per realizzare il mio progetto senza mettere a rischio il mio ritorno a casa. Da non dimenticare che ho visitato quel paese nel maggio 2017, quando le tensioni fra Trump e Kim Jong-un erano alle stelle e si parlava anche di un intervento militare.

Alla fine ho documentato quello che mi interessava, i giovani, fotografando i posti dove vengono formati – asili, scuole, università e altri luoghi previsti dal regime. I miei controllori erano orgogliosi di mostrarmi tutto questo e a volte mi trovavo nella situazione assurda di vederli più preoccupati che fotografassi cose che non mi interessavano (segni di degrado di Pyongyang o persone che secondo loro non tenevano un comportamento consono) invece degli invadenti segni della propaganda, ormai a loro invisibili essendovi immersi da sempre. Da quel viaggio ho portato a casa la consapevolezza di essere fortunato di essere nato e cresciuto in una democrazia. Certi mondi distopici non si trovano soltanto nei romanzi.

Qual è il riconoscimento che, più di altri, ti ha dato la necessaria grinta e la conferma di aver intrapreso la giusta strada?
Per una serie di circostanze, direi che il salto è avvenuto nel 2016, a Londra, alla cerimonia dei Sony World Photography Awards, dove era stato premiato il mio lavoro “Made in Korea”. Al di là della curiosa esperienza – una pomposa cerimonia stile “Notte degli Oscar” – è stato importante perché quel progetto in Corea del Sud rappresentava il lavoro più ambizioso per me, fino a quel momento, e quindi era un ulteriore test per capire se potevo fare un salto di qualità. Inoltre quel riconoscimento mi ha permesso di conoscere persone che poi hanno avuto un ruolo centrale nello sviluppo di altri progetti, come quello in Corea del Nord.

Fra le tue attività c’è anche l’insegnamento. Quali consigli daresti a chi vorrebbe iniziare a utilizzare la fotografia per documentare ciò che lo circonda?
Il requisito essenziale, oltre all’apertura mentale, è la determinazione. A volte mi capita di vedere professionisti, anche di altri settori, che sono agli inizi ma che hanno la predisposizione di chi “ce la farà”. Magari non so dire quanti anni occorreranno, ma so che riusciranno a raggiungere il loro scopo. Avendo io una formazione da informatico, materia che ti insegna ad affrontare problemi molto complessi smontandoli in sotto-problemi più semplici, forse sono stato avvantaggiato in questo approccio. Se, ad esempio, mi trovassi a dover scalare una montagna, pianificherei ogni dettaglio dell’impresa ovviamente ma, una volta iniziata, non ragionerei sul numero complessivo di passi necessari, ma ragionerei sul fatto che devo fare almeno un passo ogni giorno. C’è un detto latino che ricordo sempre: Nulla dies sine linea che significa “Nessun giorno senza una linea“.

Come vedi lo stato della fotografia in Italia? Cosa manca e cosa servirebbe?
La salute dei fotografi italiani di oggi mi sembra ottima. Ci sono tanti colleghi che stanno compiendo lavori straordinari, apprezzati in tutto il mondo. Sulla salute di tutto ciò che ruota attorno ai fotografi, invece, sono meno ottimista. Nell’anno di un evento epocale, come la pandemia di Covid-19, uno dei lavori più importanti è stato svolto da Fabio Bucciarelli grazie all’investimento di tempo e risorse che ha fatto su di lui il New York Times (non mi risultano casi analoghi in Italia), mentre il progetto più lungimirante italiano ritengo che sia la creazione dell’archivio previsto da “The COVID-19 Visual Project”, con diversi lavori fotografici assegnati, possibile grazie a una realtà consolidata come il Festival Cortona On The Move e una banca. Altre iniziative, alcune interessanti e di qualità, sono nate grazie all’impegno di collettivi di fotografi, realtà autofinanziate e iniziative personali dei singoli fotografi. Forse è un po’ poco? Personalmente ritengo che serva una maggiore considerazione del ruolo del fotografo e, di conseguenza, un maggior investimento di risorse. Questo può avvenire inserendo studi e corsi dedicati nei percorsi educativi e formativi, anche in relazione al ruolo importante che ricopre l’immagine nella comunicazione di oggi e nei Social. Chiaramente gli eventuali risultati si vedrebbero dopo parecchi anni.

Mirko Bonfanti