Podere La Berta, Cena con Concerto dell'Orchestra Giovanile Luigi Cherubini
Brisighella, 12/07/2018
Alcune fotografie dell'evento che si è tenuta al Podere La Berta di Brisighella :)
Podere La Berta, Cena con Concerto dell'Orchestra Giovanile Luigi Cherubini
Brisighella, 12/07/2018
Alcune fotografie dell'evento che si è tenuta al Podere La Berta di Brisighella :)
Su artwave.it è uscito un articolo a cura della bravissima Anna Frabotta, che mi ha intervistato a proposito del mio lavoro sulla Corea del Nord :)
Korean Dream
Cosa significa vivere in Corea del Nord? Ce lo siamo fatti raccontare dal fotografo Filippo Venturi, uno dei pochi ad aver posato l’obiettivo nel paese di Kim. Il progetto tra i finalisti del Cortona on The Move (12 luglio - 30 settembre)
di Anna Frabotta - 08.07.2018
A volersela immaginare, la Corea del Nord, si fa davvero fatica. Pochi altri posti al mondo sono così interdetti all’umana (extra nord-coreana) presenza e di pochi altri posti al mondo si sente parlare solo e soltanto per interposta persona. E solo e soltanto di guerre presunte e minacciate, di armamentari bellici o nucleari e di dittatori dal bizzarro taglio di capelli.
C’è chi però quell’invalicabile muro fatto di silenzi e immaginari pensati è riuscito a scavalcarlo e a restituircene un racconto che, se non poteva essere del tutto fedele nelle meravigliose immagini, lo è sicuramente nelle parole.
Il nostro uomo è Filippo Venturi, fotografo cesenate classe 1980, diversi premi importanti alle spalle e un sogno chiamato Corea.
Lo abbiamo incontrato a pochi giorni dall’inaugurazione del “Cortona On The Move” che lo vedrà tra i protagonisti proprio con il suo progetto Corean Dream, selezionato fra le New Vision del festival.
Filippo ci racconta di come, dopo aver lavorato a un progetto fotografico sulla Corea del Sud, da cui emerge una corsa alla perfezione talmente sfrenata e stressante da oltrepassare i limiti della sopravvivenza, sia cresciuta in lui la voglia di raccontare l’altra e più sconosciuta faccia della medaglia.
Ufficialmente Stato socialista con libere elezioni, nella pratica dittatura totalitaria basata sul culto della dinastia Kim, questo fazzoletto di terra di 120.540 km² nasconde innumerevoli contraddizioni, che partono dalla sua forma di stato e finiscono nell’avanzato sviluppo tecnologico cui fa da contraltare l’elevato livello di povertà e arretratezza della popolazione.
Entrarci non è semplice, sono molte le difficoltà per ottenere un visto cui soprattutto giornalisti e fotografi vanno incontro, molti i documenti da preparare, le relazioni da redigere e gli agganci fondamentali che bisogna avere, qualcuno che garantisca per te alle autorità coreane: “Ero piuttosto pessimista all’inizio, c’erano troppe cose che dovevano incastrarsi per il verso giusto, ma alla fine ce l’abbiamo fatta. Il mio contatto in Corea prima di partire mi ha preparato su come avrei vissuto in quelle due settimane, mi ha spiegato che sarei stato sempre accompagnato da quattro guide, che non avrei potuto lasciare l’albergo senza di loro… che poi le chiamano guide, ma in realtà sono controllori e censori. Ho lavorato in condizioni molto particolari e restrittive, con un fotografo che fotografava me e qualunque cosa inquadrassi e un livello d’isolamento mai sperimentato prima. Non c’è internet, non va il telefono e l’unico modo per mettersi in contatto col resto del mondo è utilizzare il telefono dell’hotel, ovviamente sotto sorveglianza”.
Anche le conversazioni in Corea si riducono all’osso, non si parla di politica, America o Trump, e soprattutto a scomparire è la riservatezza con microfoni piazzati ovunque, a partire dalle camere degli hotel riservati ai turisti stranieri, e l’ossessione per la spia occidentale ancora molto sentita. A tal proposito Filippo ci racconta di quando la giornalista che era con lui ha chiesto alle guide “Se ci fosse un nord coreano contrario al leader cosa succederebbe?” e, dopo attimi di preoccupato silenzio, la risposta è stata “ma chi è?”, trasformando una semplice ipotesi in una preoccupante e reale minaccia.
E ad essere quasi del tutto assente è anche la percezione di vivere in una bolla, una specie di cattivo Truman Show alimentato dal Leader Supremo: “Avevamo preso l’abitudine di chiedere ogni mattina quale fosse la notizia del giorno, in quel periodo stavano facendo molti test missilistici e si parlava della minaccia di una possibile invasione da parte di Trump. Una mattina la notizia del giorno riguardava i festeggiamenti organizzati dal leader Kim Jong-un in onore degli scienziati, il giorno dopo ancora la notizia riguardava i complimenti di un politico di un paese confinante, non ricordo chi si complimentava per il test riuscito. Allora ho chiesto alle nostre guide se venissero mai date notizie negative e la risposta è stata sì, ma solo riguardo a paesi stranieri, ma in Corea apparentemente non succede nulla di brutto o meglio, stando alla nostra guida Kim, i giornali riportano solo le notizie adatte al popolo coreano, come fossero genitori protettivi. Qualcuno quindi è conscio dell’esistenza di una sorta di filtro, ma c’è una fiducia totale nel leader”.
E come in ogni Truman Show che si rispetti, devono esserci attori e figuranti. Secondo Filippo la popolazione nord-coreana potrebbe essere divisa in tre fasce: una include le persone che non hanno un ruolo di rilievo nella società, non possono uscire dal paese e informarsi correttamente, conoscono solo la realtà raccontatagli dalla propaganda di regime e quindi vivono in una sorta di mondo ovattato. Poi c’è un livello intermedio, come le nostre guide, che può percepire che c’è qualcosa che viene nascosto, ma la ritiene più una forma di tutela che una privazione di libertà. Infine c’è la fascia più alta, dirigenti di partito e professori universitari, che possono viaggiare all’estero e hanno accesso al vero internet: “È stato molto interessante incontrare del tutto casualmente un funzionario di partito che sembrava non vedesse l’ora di ricevere la proposta di un’intervista. Ci siamo dati appuntamento per la sera al Koryo Hotel, uno degli alberghi più importanti di Pyongyang. All’inizio lui sembrava quasi un attore americano, molto sicuro di sé e con un inglese quasi impeccabile, ma quando parlava si rivolgeva solo alla giornalista… la prima mezzora è passata con lui che ci provava con la giornalista in modo molto esplicito, ma lei è stata brava a riportare l’intervista sui binari. A quel punto è successa una cosa strana, il nostro uomo ha smesso di parlare in inglese e quindi abbiamo chiamato Kim, la nostra guida, per farci da interprete. È stata una strana intervista anche perché il funzionario di partito si è sbilanciato molto nelle risposte, ammettendo le problematiche legate all’embargo, come la carenza di acciaio e carbon coke, ma la cosa più interessante è stata proprio la reazione di Kim a cui, tra le domande della giornalista e le risposte del funzionario, si è aperto un mondo, venendo a sapere cose di cui era completamente all’oscuro, assassinio del fratellastro di Kim Jong-un incluso. Penso che Kim sia rimasto molto stupito da quello che ha sentito”.
Allo stupore di Kim facciamo seguire il nostro, non solo perché le nostre orecchie hanno ascoltato un racconto a tratti orwelliano, ma anche per il fascino delle foto che Filippo ci mostra, come a dire che la bellezza si nasconde anche dove meno te lo aspetti.
Filippo Venturi
Cesenate, classe 1980, è uno dei più promettenti fotografi italiani. Si occupa di reportage, documentari e lavori commerciali oltre che di progetti personali su questioni che ritiene interessante approfondire e portare all’attenzione degli altri. I suoi lavori sono stati pubblicati su riviste e quotidiani, come The Washington Post, Die Zeit, Internazionale, La Stampa, Geo, Marie Claire, Vanity Fair, Io Donna/Corriere della Sera, Repubblica. Il suo progetto Made in Korea, ha vinto il secondo premio ai Sony World Photography Awards, uno dei più importanti riconoscimento nel settore che ogni anno premia le eccellenze della fotografia internazionale.
Per conoscere tutti i progetti e le prossime mostre di Filippo Venturi: www.filippoventuri.photography
I miei lavori Korean Dream e Eyes Wide Shut saranno esposti nella Galleria Espace Beaurepaire di Parigi dall'11 Luglio 2018. In mostra ci sarà un gruppo di lavori fotografici selezionati da Hossein Farmani, fondatore di Px3 Paris Photography Prize.
La presentazione ufficiale:
“The State of the World”
Curated Exhibtion by Hossein Farmani
It is my pleasure to present a new PX3 annual event, “The State of the World” – stories specially selected from the entries to the Paris Photo Prize; global stories worth telling because they are eyewitness accounts as told through the lens of the photographer; stories both happy and sad, inspiring and shocking, gentle and brutal; stories to focus your eyes and mind on issues that are current and crucial in our world today.
We live in an era where we have faster access to information than any previous generation and limitless amounts of knowledge at our fingertips, and yet it is harder than ever for us to discover the truth.
We are connected to the Internet 24 hours a day but we are more disconnected than ever from our fellow-human beings and the really important issues that affect our world.
We are bombarded with an avalanche of opinion polls, fake news, and propaganda till it becomes almost impossible to distinguish fact from fiction and we forget what true story telling looks like.
Our goal is to bring you the uncensored news, directly from the photographers that witness events first-hand, with the guarantee that they are not manipulated by the mainstream media or sensationalized for profit.
We believe that as long as we remain committed to speaking the truth as we see it and supporting those who make it their passion and life’s work to tell and share their eyewitness information with the world, we can effect great change and ensure that truth will always have a clear voice.
Il mio lavoro Made in Korea ha vinto la Call for Entry di Diecixdieci - Festival della Fotografia Contemporanea!
Il mio progetto sulla Corea del Sud, quindi, farà parte del circuito ufficiale delle mostre esposte dal 28 settembre al 7 ottobre 2018 a Gonzaga (MN) e Luzzara (RE).
Il sito ufficiale del Festival è il seguente: www.festivaldiecixdieci.com
Podere La Berta, Cena in Vigna al tramonto
Brisighella, 28/06/2018
Alcune fotografie dell'evento che si è tenuta al Podere La Berta di Brisighella :)
Sul quotidiano tedesco Die Zeit, versione cartacea e online, una parte del mio lavoro "C'era una volta il Duce" nell'articolo "Lega e Movimento Cinque Stelle al potere: l'Italia è sulla strada per un nuovo fascismo?"
Ciao Filippo, prima di tutto intendo ringraziarti per la tua disponibilità e complimentarmi ancora per il tuo lavoro, con particolare riferimento ai progetti coreani, sui quali vorrei concentrarmi. La fotografia di reportage non è sicuramente semplice, essendo il rischio di cadere nel banale sempre presente, ma tu sei riuscito a cogliere e trasmettere, in due progetti distinti, i lati più identificativi e peculiari di culture che, nonostante la vicinanza territoriale e un passato profondamente intrecciato, si trovano quasi agli antipodi. Una presunta utopia in contrasto con una distopia alla 1984 di Orwell.
Prima ancora di affrontare singolarmente i due progetti, assumendo altresì una visione d’insieme, mi piacerebbe chiederti se c’è stato qualcosa in particolare che ti ha spinto a concentrarti sulla penisola coreana.
Sono una persona molto curiosa e sono sempre alla ricerca di temi poco raccontati e storie originali da approfondire fotograficamente. Ho diverse fonti, fra giornali, siti internet, social network e così via, che consulto in cerca di ispirazione; raramente l’idea arriva come un fulmine a ciel sereno, più spesso invece la mia mente raccoglie inconsciamente elementi relativi ad un certo argomento fino a quando non maturo l’idea di lavorarci sopra e così è stato per la Corea del Sud.
Inizialmente ho deciso di approfondire esclusivamente questo Paese di cui si parlava poco (spesso era la Corea del Nord a rubare la scena internazionale). Molti fra i miei amici e conoscenti con cui ne parlavo non avevano idea di che tipo di Paese fosse.
Studiandolo ho scoperto che si trattava di un Paese molto interessante e futuristico (non solo a livello visivo) in cui certe tendenze e fenomeni sono talmente estremizzati da rivelare un possibile futuro dell’intero pianeta.
Per raccontare la Corea del Sud ho scelto di focalizzarmi sui giovani, sui quali pesano tutte le speranze del Paese.
Più in dettaglio: nel 2014 ho deciso di realizzare il progetto e, dopo un anno di studi, approfondimenti e ricerca di contatti sul posto, mi sono recato nel Paese nella primavera 2015.
Una volta rientrato in Italia, pensando ai progetti futuri, è stato naturale pensare di completare il racconto della Penisola coreana, pienamente consapevole che sarebbe stato difficile anche solo varcare il confine nord.
Entrambi i progetti sembrano ruotare, come è possibile cogliere leggendo le rispettive introduzioni sul tuo sito, intorno a quelli che potrei definire “estremismi”: una forte standardizzazione sociale, guidata da canoni estetici e ambizioni personali esagerate, con riferimento alla Corea del Sud e, se guardiamo alla Corea del Nord, la totale devozione ad un regime totalitarista imperniato su una dinastia di dittatori. Estremismi che portano, da un lato, ad una crescita economica forsennata e, dall’altro, ad uno sviluppo economico e sociale strettamente legato – per strapparci un sorriso – all’umore mattutino di un giovane dittatore.
Cosa ti ha stupito di più dei due paesi? In che termini i due viaggi hanno influito sulla tua crescita personale e, perché no, professionale?
Sono rimasto molto colpito dalla forte influenza che i due Paesi hanno sulla vita dei propri giovani, pur con tutte le differenze politiche, sociali e culturali che li distinguono. E notevole è la risposta devota dei giovani alle priorità a cui vengono chiamati per il bene del Paese, anteponendole spesso ai propri diritti e al proprio benessere.
Grazie a questi due progetti sono maturato molto nella parte organizzativa dei miei lavori, che ora supera abbondantemente il tempo dedicato al gesto di fotografare. Inoltre ho sviluppato un’esperienza nel rapportarmi con culture diverse; nel caso della Corea del Nord ho dovuto anche cavarmela in situazioni di estrema sorveglianza, censura e isolamento forzato dal mio Paese e dai miei cari.
A livello professionale ho avuto un riscontro molto positivo perché penso di aver intuito al momento giusto che la Penisola coreana sarebbe stata al centro dell’attenzione in questi anni e sono soddisfatto del lavoro che vi ho svolto.
Come dicevo, da un lato la Corea del Sud era, ed è, un Paese che ritengo trascurato fotograficamente, dall’altro lato la Corea del Nord è un Paese dove accedere e lavorare con visto giornalistico è molto arduo. In sostanza ho ottenuto il mio scopo, cioè raccontare bene qualcosa che è poco raccontato.
Escludendo qualche scatto ambientale, con il quale aiuti lo spettatore ad immergersi nella storia, entrambi i progetti, ma ciò accade anche in “In Oblivion”, sono caratterizzati da una forte presenza umana, con soggetti al centro dell’immagine.
C’è un motivo particolare alla base di questo approccio alla fotografia di reportage?
Agli inizi, quando studiavo fotografia e sognavo di lavorarci, ero restio a fotografare le persone perché è un processo più complesso rispetto al realizzare immagini di luoghi, oggetti o individui ignari. Col tempo ho superato la timidezza iniziale, ho scoperto che mi piace fotografare le persone con ritratti ambientati e che sono fondamentali nei miei lavori. Anche la scelta delle tematiche è condizionata dal legame che hanno con l’uomo.
Va anche detto che, spesso, parallelamente al lavoro fotografico svolgo un lavoro giornalistico, ricorrendo anche alle interviste che sono un ulteriore snodo per approfondire l’argomento che tratto (oltre a facilitare la pubblicazione sulle riviste).
Ricollegandomi alla domanda precedente, ho notato che i soggetti posano per te. Non si parla di scatti rubati o ritratti di scene di vita quotidiana. Partendo dal presupposto di una cultura estremamente diversa dalla nostra e tenendo conto anche del particolare rapporto che possono avere con il mondo “esterno”, in che modo ti sei relazionato con i nordcoreani? Erano ben disposti nei confronti di un fotografo straniero?
Sono convinto che i ritratti, in lavori dove si cerca di svelare le caratteristiche di una fetta di popolazione, siano fondamentali, soprattutto se si riesce a superare l’iniziale fase di imbarazzo del soggetto che intendo fotografare.
Lascio piena libertà alle persone che ritraggo e, se aspetto il tempo giusto, spesso mi offrono posture, sguardi e dettagli che raccontano qualcosa che va oltre il singolo individuo.
L’unico accorgimento che prendo è quello di dirgli cosa non fare – cioè sorridere – lasciando quindi la libertà di assumere qualunque altra espressione.
Il sorriso è una reazione di difesa spontanea che si assume in situazioni imbarazzanti o dove non si è a proprio agio. Col passare dei secondi o dei minuti, il soggetto assume una espressione più naturale, che ne definisce il carattere, ma anche l’influenza della società su di lui.
Con i nordcoreani il rapporto è stato molto difficoltoso perché non potevo comunicare direttamente (in pochi conoscono l’inglese) e, per motivi di “sicurezza”, ero sempre costretto a usare uno dei tre controllori che mi seguivano come tramite.
Molti nord coreani si sono rifiutati di posare, altri lo hanno fatto quasi si sentissero obbligati e qualcuno s’è reso disponibile, pur con una certa diffidenza.
In una tua intervista hai raccontato che l’ottenimento del visto per la Corea del Nord ha comportato notevoli difficoltà, tra cui la stesura di una minuziosa relazione sulle tue intenzioni fotografiche e la necessità di trovare un contatto che potesse garantire per te.
Le difficoltà attraversate e le molteplici richieste da parte delle autorità nordcoreane, permeate di dubbi nei tuoi confronti, non hanno influito sulla tua voglia di partire? Hai temuto per la tua sicurezza una volta arrivato?
Uno dei miei difetti e al tempo stesso pregi è che quando mi metto in testa una idea, vado fino in fondo. Nei mesi trascorsi ad attendere notizie ero pessimista sull’esito perché c’erano veramente tante cose che dovevano incastrarsi nel modo giusto. Man mano che ogni tassello finiva al proprio posto, la persona che mi stava aiutando ha iniziato a istruirmi su tutti i rischi che avrei corso (basti dire, per fare un esempio, che nelle stanze di albergo dove avrei alloggiato c’erano microfoni nascosti) e su quali accorgimenti prendere per ridurre al minimo tali rischi. Quando era praticamente tutto pronto, ho iniziato a domandarmi se ero pienamente consapevole di quello che stavo facendo, era la mia prima esperienza in un regime e iniziavo proprio da quello più chiuso e controllato al mondo!
La possibilità di lavorare in una condizione così difficile però mi ha anche caricato notevolmente, al punto di poter dire che nei miei lavori futuri spero di complicarmi ancora la vita in questo modo.
In che modo ti sei preparato ai due viaggi? Sei partito con una ferrea tabella di marcia e degli obiettivi prestabiliti o ti sei lasciato ispirare?
Entrambi i lavori hanno richiesto circa un anno di preparazione ciascuno, per studiare, ricercare contatti e farmi una idea precisa di cosa raccontare (nel caso della Corea del Nord vanno aggiunti diversi mesi per l’ottenimento dei documenti e dei permessi).
Avevo una tabella di marcia, non ferrea però, perché mi lasciavo portare fuori strada volentieri dal caso, quando fiutavo situazioni e imprevisti interessanti.
Nei miei lavori cerco di far convivere scatti ragionati e scatti “trovati”; questi ultimi sono spesso il condimento che rende tutto più saporito, ma lavorare cercando solo questo tipo di immagini spesso non ti fa raccogliere tutti i pezzi del puzzle che vuoi comporre.
Come tu stesso hai detto in precedenza, non c’è una storia romantica di macchine fotografiche regalate nella tua infanzia. Cosa ti ha spinto a diventare un fotografo? C’è stato un evento in particolare che ti ha spinto ad approfondire quest’arte o è stata una crescita graduale dettata da una semplice curiosità?
Quando ero molto giovane adoravo scrivere. Avevo anche iniziato a ottenere piccole pubblicazioni e soddisfazioni, ma quando ho scoperto la macchina fotografica e la possibilità di raccontare con quel mezzo sono cambiate completamente le mie priorità e ho capito di aver trovato la mia strada. A volte mi domando dove sarei oggi se avessi dedicato tutto me stesso alla scrittura come ho fatto con la fotografia, ma giungo sempre alla conclusione: sarebbe stata una via avventurosa, probabilmente appagante e stimolante, ma non quella giusta per me.
Come ultima domanda vorrei riproporne una che abbiamo già fatto ad un altro fotografo: cosa ne pensi della ricerca spasmodica del Like e dell’apprezzamento sui Social?
Come in tutte le cose, è necessario trovare un equilibrio, in questo caso fra l’essere coerenti con se stessi e il voler cercare l’approvazione continua, che rischia di diventare una dipendenza capace di deformare la nostra personalità.
Per un fotografo il rischio è di dedicarsi a cose semplici e universalmente riconosciute come belle, perdendo però di vista i propri interessi e la propria voce. Quella si che è unica, sempre.
In generale, quando uso i Social, cerco di tenermi alla larga dai cliché e pubblico un pensiero o una fotografia o un link (spesso appunti per me stesso) quando ritengo di avere qualcosa di veramente interessante da condividere.
Penso che siano un mezzo fondamentale per promuoversi, senza però diventare assillanti o pesanti. Dato che uso il mio account sia per la vita personale e sia per motivi commerciali, cerco di amalgamare il tutto in modo piacevole per chi mi segue.
Intervista di Nicholas Rusconi
Questo è il link all'articolo originale: https://ri-flex.com/intervista-a-filippo-venturi
Il mio lavoro "Korean Dream" è uscito su Dodho Magazine!
Qui il link all'articolo: www.dodho.com/korean-dream-by-filippo-venturi
Su Repubblica.it il mio lavoro sulla Corea del Nord, selezionato nella Call "New Visions" del Festival internazionale di fotografia Cortona On The Move in parnership con Lens Culture e in collaborazione con Repubblica.it.
Sul Milanodabere.it è uscita una mia intervista relativa ai reportage fatti in Corea del Sud e del Nord :)